"Horses" non è solo come molti l’hanno definito "la spada che ha tagliato in due il destino del rock". O almeno non solo questo. E’ l’abbraccio che tiene unite disperatamente due epoche contrapposte. Se album come "Pet Sounds" o "Surrealistic Pillow" avevano portato via la generazione dei figli da quella dei padri, "Horses" prepara il campo al sopravvento dei nipoti. È l’atto di coraggio che qualcuno nel mondo del rock doveva fare. La consapevolezza di ciò che è doveroso dimenticare o salvaguardare di quel meraviglioso fuoco creativo bruciato a cavallo tra i sessanta e i settanta, di cui a quel tempo era rimasto solo una fertilissima brace.

Siamo nel 1975, il panorama musicale di punta è ancora di grandissimo spessore (per fare due nomi, Led Zeppelin, Who, Roxy Music, Steely Dan, il redivivo Bob Dylan, Lynyrd Skynyrd, ecc), ma siamo all’ombra di quel che sono stati gli anni precedenti, molti eroi sono caduti più o meno dolorosamente, e molti ancora di quelli in piedi dovranno cadere prima dell’inizio del decennio successivo.
Patti Smith è solo una sbandata pseudo-poetessa di Chicago, si trascina per anni nella New York più intellettuale, dal Greenwich Village alla Factory di Warhol, senza sostanziali successi; finché un giorno si sciacqua il viso e decide di mettere a frutto anni e anni di vita maledetta e di conoscenze giuste. Trova presto la lucidità necessaria per dare una forma alle proprie suggestive idee. È proprio questa indomita artista, dallo spirito pericolosamente anarchico, a porsi inconsciamente l’obiettivo (forse allora con l’unico parallelo di Bruce Springsteen) di traghettare il rock fuori dalla palude in cui stava affondando, di salvarlo facendogli respirare aria nuova. E nel modo più semplice, facendolo suo.

La grandezza di Patti Smith sta proprio nell’aver operato all’interno della tradizione ma secondo i propri – personalissimi - schemi. Innanzitutto elude con molto coraggio l’immaginario femminile che fino allora aveva dominato il mondo della musica, facendo a pugni non solo con la caricatura pin-up stile Marylin o con la diva fascinosa alla Billie Holiday, ma anche con "trasgressive" sul genere Joan Baez o Janis Joplin. Sì, perché qui si va oltre ad una pura questione di vestiario o atteggiamento. Questa è la prima "poetessa del rock", senza se e senza ma, senza mascara o smancerie, qui si fa sul serio.

L'album si inaugura subito con una cover programmatica, quella "Gloria" che ormai è più un passaggio di testimone che una semplice storia di una eccitante infatuazione: la canzonetta dei Them, già resa delirante a suo tempo dai Doors, viene qui violentemente risucchiata e arricchita in un meraviglioso viaggio allucinogeno dove si raggiungono climax insospettati, un coinvolgimento che la versione di Van Morrison neanche sognava. Il resto è storia, galoppate visionarie di pianoforti energici e chitarre (del mitico Lenny Kaye, sì sì proprio quello di Nuggets!) taglienti, crudeli, essenziali. Evocative. Sia nei testi che nella musica si fa strada un’alchimia eccezionale tra semplicità ed emozione, tra amabile classicità ed estremismi inauditi (basti pensare al capolavoro "Land", suite di oltre nove minuti tra i fantasmi di Wilson Pickett e le densità ombrose di confessioni ironiche come quella di "La Mer(de)". Potrebbe essere il degno sottofondo dell’opera omonima di Pietro Manzoni.
Tra versi bellicosi figli della beat generation più ginsberghiana, emozionanti esperimenti di proto-new wave e rabbioso proto-punk, veniamo scossi, protetti, bruciati ed esaltati nel corso di sette tracce indelebili (che se permettete mi esimio di vivisezionare per non rovinare sorprese ai neofiti) fino alla ninna-nanna umida e invasata di "Elegie".

La qualità unica di Patti Smith non risiede tanto dalla sua voce, dalle sue pose sceniche, dalla sua sensualità per pochi, ma nei messaggi che essa ha scritto dentro di sé. Aspettava solo di trovare un produttore lungimirante come John Cale, un ottimo compagno di avventure come Tom Verlaine (da ascoltare "Break It Up") e soprattutto altri quattro spiriti liberi (oltre che ottimi musicisti) che potessero amplificare i suoi sentimenti. Qui si svela come mai prima di allora la selvaggia passione con cui una giovane donna può vedere, amare e odiare il mondo.
L’anima di "Horses" è questa, la corsa di acerbi cavalli finalmente liberi, ancora non si sa bene da cosa (questo lo scopriranno dopo pochi mesi i rotteniani-ramoniani), ma con un bisogno viscerale di dispiegare la propria bellezza, il proprio senso di vita.

P.S.: riedito dal 1996 con l'aggiunta di un imperdibile omaggio agli zietti mod, la cover punkettosa di "My Generation" degli Who. Historia magistra vitae...

Carico i commenti... con calma