Tra i miei ricordi musicali più belli vi è quello di aver visto, un paio di volte, Peter “Ollie” Halsall (1949-1992) in azione su un palco. Spirito libero e onesto, musicista istintivo e talentuoso come nessuno, questo batterista/vibrafonista/pianista è... fra i migliori chitarristi che si possa avere il piacere di ascoltare ed ammirare.

Per l’appassionato di rock che ne abbia sentiti tanti e tanti e pensa di averli sentiti tutti ma per caso è ancora a digiuno di questo timido e modesto genio, c’è di che restare di stucco ad ascoltarlo. Anche ora, nel 2006. Cos’ha (aveva, sigh!) di unico Ollie? Suonava il rock con la testa e il cuore spalancati alla musica, di cui assorbiva tutto e non copiava niente e nessuno. Ragionava sulla chitarra mezzo da sassofonista e mezzo da violinista. Il suo cervello sciolto e disponibile forniva alle sue dita una spaventosa fluidità ed imprevedibilità. Il suo fraseggio strettissimo, quasi cromatico, reso possibile da una mano destra sempre spalancata sulla tastiera con tutte e quattro le dita, volava sull’armonia magicamente e imprevedibilmente, ancora una volta LIBERO, perché questo è l’aggettivo più consono.

Nell’epoca dei plettratori forsennati e degli ampli Mesa Boogie che mordono solo a toccarli ascoltare Halsall eseguire sei note con una sola pennata, con la moderata e pulita distorsione di cui è capace un ampli Fender, con le sfumature che la sua anima e la sua tecnica sfornano a iosa, è cosa confortante. Bene, detto questo, c’è da aggiungere che in questo album quel matto di Halsall la chitarra quasi non la suona! E’ il 1972, i critici lo hanno appena incensato per le incredibili performances a questo strumento nel precedente album dei Patto “Hold Your Fire” e lui se ne frega e riempie il disco di pianoforte, fa a meno degli assoli in buona parte dei pezzi e, insieme ai suoi soci, imposta il disco in maniera molto goliardica. Titoli come “Capitan P and the Attos” sono emblematici, ma sotto le mattacchionate un po’ alla Frank Zappa c’è un blend di rock + jazz + funk + blues come non se ne sentirà mai più.

L’opera si apre con “Singing The Blues On Reds”, un rock virato decisamente verso il funky. La espressiva voce blues di Mike Patto lo tiene apparentato, ma ancora distante da cose tipo James Brown, basso e batteria tengono un pattern che ogni tanto “spareggia” il 4/4 con un offbeat, così, tanto per ricordare ad ogni giro che siamo nella musica progressive inglese dei settanta! Halsall oltre a un accompagnamento di piano elettrico incide due chitarrine pulite che infioccano ed infiorettano, ai due estremi dell’immagine stereo, ognuna per conto suo, per poi improvvisamente passare all’unisono per un arpeggio imperiale, largo, con un suono magnifico, che costituisce il break strumentale del pezzo. Più avanti si ricostituisce il ritmo secco e funky per la conclusione affidata… ad uno schiaffo e conseguente urrrgh! del cantante! Arriva “Flat Footed Woman”, otto minuti di rock blues pianistico durante il quale Mike Patto racconta della sua donna coi piedi piatti, accompagnato da un rocciosissimo John Halsey ai tamburi. Il lavoro al piano di Halsall è sublime, un rock pieno di jazz, con divini rivolti delle accordature e frequenti partenze per la tangente con assoli potentissimi. Tutto questo farina del sacco di un chitarrista per lo più mancino! Cazzo!

Il terzo pezzo si intitola "mummy" ed è “a cappella” nel… vero senso della parola! Lo spiritoso batterista Halsey si mette a un microfono e i suoi tre compari (Patto, Halsall e il bassista Clive Griffiths) ad un altro, ai “cori”. Parte una plausibile storia di uno che si sveglia di soprassalto la notte e racconta alla “mummy” che ha avuto un brutto sogno… lei comprensiva gli da un bacio che però dal rumore si intuisce non essere esattamente innocente, e poi continua con quella che altro non può essere che una splendida fellatio, che finisce puntualmente in gloria con un Halsey, che intanto non se ne è stato mai zitto un momento spalleggiato dai suoi tre compari, sempre più entusiasta! A freddo, segue il capolavoro dell’album, Halsall per una volta mette al massimo le regolazioni dell’ampli e parte il muro di suono di “Loud Green Song”, una faccenda hard rock a dir poco scioccante per l’epoca. Sicuramente registrata in presa diretta in studio, perché ha un suono “live” pazzesco ed anche alcune evidenti imperfezioni e distorsioni, specie sulla voce. Vanno tutti come treni e Mike Patto fatica a sovrastare tanto ardore, e dire che di potenza ne ha nella voce. Halsall qui molla l’unico vero assolo di chitarra dell’album ed è devastante, velocissimo ma con un senso dell’anticipo ed un’ espressività nella velocità di esecuzione inarrivabili, inimitabili, intramontabili! Quattro minuti scarsi di fuoco che valgono l’album.

Turn Turale” che segue vede la chitarra sparire di nuovo. E’ tutto affidato al piano, stavolta per un rock blues “stop and go” irrobustito dal rocciosissimo Halsey, e via via sempre più orgasmico, con le solite volate sulla tastiera dal sapore jazz, in un casino totale inconfondibilmente rock. Gran pezzo anche questo. In “I Got Rhythm” Halsall inserisce il vibrato del suo Fender e crea con la chitarra un blues fumoso nel quale la voce di Patto, espressiva, personale, dà il suo meglio. Gli ultimi due pezzi sono pieni di mattacchionate, uno lo canta Halsall e l’ultimo addirittura il batterista, se si può chiamare canto una performance fatta di parlato, pernacchie, rutti, cori stonati di gente ubriaca fra rumori di risacca, bottiglie rotte eccetera...

Che disco ragazzi!

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