"Questo disco è il primo di una serie (spero) che segna l'evoluzione di DEATH SS in VIOLET THEATRE o meglio l'abbandono del satanismo ritenuto da noi ora una inferiore e futile ideologia. Il concetto principale su cui è impostato il VIOLET THEATRE è l'antica filosofia della morte o magia viola di cui io sono da sempre più o meno inconsciamente un cultore fedele.

PAUL CHAIN VIOLET THEATRE è una continua ed evolutiva ricerca nel dark, essendo l'evoluzione fondamento della nostra ideologia. Il continuo mutare della mia androgina personalità mi costringe a dividere lo stesso concetto in diversi settori e formazioni musicali senza alcuna limitazione di generi anche x dimostrare che lo stesso può essere detto in diversi modi, cosa che molta gente finge di non sapere o ha scordato da tempo.

La formazione di questo disco è un trio (Gilas è un ospite) e la lingua cantata non è l'inglese”

Eternamente vostro

Riporto questo brano scritto da Paul Chain di proprio pugno poiché ritengo che siano le migliori parole per descrivere il contenuto di questo “Detaching from Satan”, mitico EP che inaugura la nuova era del musicista abruzzese, dopo la sua fuoriuscita dai Death SS. Un lavoro che, pur nella sua esigua durata, ha un significato simbolico, profetico, di motum primum per l'intera carriera solista di Paul Chain. E' il lavoro che pone una prima e netta dissociazione concettuale con un certo modo di intendere e fare musica, e c'è chi perfino lo definisce l'opera fondamentale di Paul Chain. E di sicuro si parla di un lavoro sensazionale: passando in rassegna le quattro tracce qui presenti, del resto, possiamo capire con facilità come mai il Paolo Catena sia divenuto nel tempo un personaggio di culto all'interno del panorama metal underground nazionale ed internazionale.

Correva l'anno 1984. La musica proposta dal fondatore dei Death SS possiede una forte carica innovativa, anche se lo stile adottato rimane fortemente debitore dello sconquasso apportato nel mondo del rock quindici anni prima dagli imprescindibili Black Sabbath. Ma nonostante le apparenze il discorso prosegue oltre, spoglia l'heavy-rock di Iommi & compagnia da ogni tentazione freak/hippie/blues, per spostarsi verso i lidi temibili di quello psycho-doom metafisico che Paolo Catena contribuirà a forgiare negli anni a seguire. Il “distacco” da Satana richiamato fin dal titolo non deve trarre tuttavia in inganno: la musica del Teatro Viola rimane qualcosa di terribilmente oscuro e morboso per il panorama metallico dell'epoca.

Si parte dalla storica copertina, che nella sua didascalica semplicità esplicita una crudezza nell'affrontare il tema della Morte che ci allontana anni luce dalle pagliacciate pseudo-sataniste professate dal metal di inizio anni ottanta (un affrontare la Morte a mani nude, senza il bisogno di orpelli o maschere).

Paul Chain, anche da un punto di vista iconografico, assume un'immagine più sobria, e dalle baracconate dei Death SS lo ritroviamo in una mortifera foto in bianco e nero, a metà strada fra un defunto ed un oscuro sacerdote, doppia identità specchio della sua personalità controversa, sospesa fra attrazione per la Morte e paura insanabile della stessa. Ma è musicalmente parlando che Paul Chain ha modo di affermarsi, non solo confermando le sue qualità di compositore ed abile chitarrista, ma per la capacità di creare atmosfere tese e drammatiche, di asservire il più tipico heavy-doom di sabbathiana memoria ad un inquieto esistenzialismo che ancora oggi (nonostante i limiti dell'estremo si siano spostati molto in avanti) sa mettere i brividi.

Certo, si parla ancora il linguaggio di un heavy-metal nella sua forma più canonica, ma nella sostanza il discorso di Paul Chain sa già brillare della libertà compositiva che contraddistinguerà il suo percorso: la componente più propriamente psichedelica viene contenuta ancora in un rassicurante formato canzone, ma già in queste quattro composizioni il chitarrismo improvvisato ed incontenibile di Chain, fra sferzate sbilenche e deliri elettro-acustici ben incastonati fra i solchi lasciati da energici riff più neri della pece, presenta quegli elementi che porteranno in futuro alla rottura definitiva di ogni schema spazio-temporale in album sempre più vari e sorprendenti, capaci di giganteggiare in lungo e in largo fino a raggiungere i lidi del progressive più colto, dell'avanguardia più allucinata e dello space-rock più visionario.

In questa ottica, poco rilevante è la scelta di non cantare in inglese ma di abbandonarsi ad una lingua inventata: un escamotage che puzza più che altro per la necessità di evitare di confrontarsi con la lingua inglese, con la quale il buon Chain pare aver fatto a cazzotti fin dalla prima media, uscendone ovviamente con le ossa rotta.

No, se Chain con questo album sa spostare in avanti i confini dell'estremo, non lo fa attraverso lo stravolgimento dei canoni del metal, né con la violenza (e la sua musica non è certo leggera), ma attraverso il Culto della Morte, presupposto filosofico che imprime alla sua musica un'aura di mestizia assoluta: fra momenti ruvidi e passaggi più riflessivi, in questi quattro brani c'è tanto del doom che verrà, compreso quello più depresso dei giorni nostri.

"Occultism” si apre con dissonanze a base di organo e basso: il pezzo esplode con furia hendrixiana (ma un Hendrix demoniaco ed in preda ad orrende allucinazioni), il basso di Paul Dark romba nell'oscurità, la batteria di Eric Lumen picchia duro, contro-tempi, beat dal greve vigore funkeggiante che trasportano la nera chitarra di Chain in dimensioni metafisiche fino ad allora misconosciute al mondo del metal.

Umori da chiesa, solenni cori sacri precedono l'esplosione di “Armageddon” un'autentica mazzata che mi piace annoverare fra le migliori cose combinate dal maestro Catena: riff granitici, tempi ossessivi, un ritornello obliquo che fa capire come il metal di Chain sia figlio di un'ispirazione che è la fisiologica controparte artistica di una natura inquieta ed alla perenne ricerca (irrisolta) di una risposta al perché della Morte.

"Welcome to Hell” (sorta di “Foxy Lady” delle Tenebre) è il pezzo forte dell'album, qui la voce di Chain si fa acida e sgraziata, i suoi vocalizzi demoniaci e fuori dalla grazia di Dio gelano l'ascoltatore portandolo, fra accelerazioni e rallentamenti, in un baratro a cui è difficile dare un nome. Il brano verrà riproposto circa dieci anni dopo nel capolavoro “Alkahest” con niente popò di meno che Lee Dorrian dietro al microfono: udendo queste terribili note non facciamo fatica a pensare al futuro fondatore dei Cathedral come ad un adolescente brufoloso che nel 1984 sbavava all'ascolto di un brano che all'epoca poteva ascriversi fra le cose più malsane prodotte da razza umana.

"Detaching from Satan" trova compimento nei quasi otto minuti di “17 Day”, che rappresentano il lato più macabro e doomeggiante della musica di Paul Chain: i riff taglienti che fino ad un attimo prima ci avevano segato le orecchie cedono il passo ad inquietanti fraseggi di un chitarrismo putrefatto ed in continua mutazione che edifica un monumento sonoro di Morte e Perdizione che sembra aprire molte strade. Sullo sfondo di questi desolanti paesaggi si staglia la deforme interpretazione vocale di Gilas, che, in veste di nero cantore degli abissi (più teatrale la sua impostazione rispetto a quella misticheggiante di Chain) si muove incerto e claudicante, a metà strada fra lo spleen decadente ereditato direttamente dalla tradizione dark-wave di inizio anni ottanta e le asperità dello Steve Sylvester più becero ed invasato. Impossibile non menzionare l'intermezzo di organo ad opera dello stesso Chain, che squarcia il nero velo del Teatro Viola con fosche visioni ed arcane liturgie. Incredibile, infine, il terribile finale che sfuma in dissolvenza, dopo imperdibili assoli e cori che sembrano venire dall'Oltretomba. In tutto questo, il brano è già in grado di delineare una inedita concezione del doom, dove il macabro fa da padrone in un orrendo saliscendi di emozioni enormemente negative. E, ne sono certo, in questo proliferare in terra italica di musicisti dediti ad atmosfere oscure ed anche blasfeme (il famigerato “innercircle” italiano, dark-metal o horror metal che dir si voglia) ha un peso indiscutibile l'incombenza secolare della Chiesa Romana Cattolica Apostolica.

Poco altro da aggiungere: da avere senza se e senza ma.

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