Tempo di ristampe per l'artista di culto Paolo Catena, occasione imperdibile per accedere o rispolverare opere che da un po' di tempo risultavano fuori dai circuiti dell'acquisto ufficiale.

Paul Chain ha scritto, suonato e licenziato moltissimi album, ma la cosa che sconvolge è che per nessuno di essi, diversi e distanti stilisticamente, si potrà parlare di passo falso o tanto meno di delusione. Quando si parla di Chain in termini di “genio” o più semplicemente di “talento” non si scherza: la sua ispirazione appare inesauribile, la sua creatività è una valvola impazzita che secerne note, immagini, album a più non posso, tutti contraddistinti dalla medesima classe cristallina, da una forza visionaria, da una verve chitarristica che sono rare all'interno del recinto metallico e non solo. Poi, ovviamente, intervengono i gusti personali: Chain potrà anche non piacere, potrà apparire ridicolo, stonato, sopravvalutato, ne ha di difetti Paul Chain, ma nonostante questo risulta assai difficile, per qualsiasi stimatore del rock chitarristico, sminuirne o smontarne qualità e meriti, ed impossibile, per i suoi fan, rimanere delusi innanzi ad una sua pubblicazione.

Non delude nemmeno questo “Life and Death”, un'opera, fatte le somme, un po' sottotono all'interno della discografia del Nostro. Nonostante la buona fattura, “Life and Death” non funziona al 100%, soprattutto dal punto di vista dell'atmosfera, elemento fondante del fascino che evoca in ogni sua forma la musica del musicista pesarese. Sebbene l'album sia ascrivibile al filone metal dei lavori di Chain, l'asse si inclina a favore di un hard/rock di agile ascolto, rivelando un approccio meno indulgente verso quei sublimi territori spudoratamente doom o di natura sabbathiana in cui Chain stesso si è mosso con grande disinvoltura, perizia e personalità: un hard/rock quindi privo in parte di quella morbosità, di quell'alone malsano, di quell'arcano magnetismo che da sempre contraddistingue il suo operato. Nonostante la suggestiva copertina (uno scatto dello stesso Chain) che poteva far presagire invece l'ennesimo capolavoro di truce artigianato metallico senza compromessi.

Archiviata l'esperienza Violet Theatre, Chain ricercava probabilmente una ulteriore dimensione dove poter godere di una maggiore libertà di espressione, libertà che evidentemente il Teatro Viola non riusciva più ad assicurare (anche se Chain ha sempre detenuto il pieno controllo del progetto e diversi elementi della vecchia gestione verranno comunque traslati in questa nuova fase). La carriera solista viene quindi avviata a partire dal 1987 (anno di scioglimento dei Violet Theatre) con diversi EP e singoli, e se vogliamo escludere il doppio “Violet Art of Improvisation” del 1989 (che del resto recuperava registrazioni di anni precedenti), questo “Life and Death”, pubblicato nel medesimo anno, è il primo full-lenght ufficiale pubblicato a nome Paul Chain.

Un'opera che a posteriori potremmo descrivere come l'anello di congiunzione fra i due masterpiece per eccellenza della carriera di Chain: quell'“In The Darkness” sgraziata gemma del 1986 dove Chain organizzava compiutamente le energie che avrebbero dato propulsione alla sua carriera solista, e “Alkahest”, capolavoro della maturità artistica del 1995, caposaldo del doom-metal tutto. “Life and Death” eredita così il modus operandi del primo (compresa l'idea di far cantare il lato B da Sanctis Ghoram, che per un brevissimo periodo fu l'ugola maleodorante dei Death SS) e anticipa l'eleganza e la maestosità del secondo (suoni nitidi, assoli superlativi, un organo dal suono celestiale a levigare certi passaggi, mettendo in risalto, fra l'altro, le qualità eccelse del Chain organista), ma non conferma la compattezza, la costanza e la solidità nel songwriting di entrambi. Nove brani, di cui certi riusciti molto bene, altri meno, che nel complesso non costituiscono un unico amalgama (e ricordiamo che si sta parlando di un artista anarchico che ha sempre fatto convivere con grande armonia elementi molto distanti fra loro). Ma per favore procediamo con ordine.

Si parte con quel gioiello di introduzione che risponde al nome di “Steel Breath” ad opera del bravissimo Aldo Polverari (R.I.P.), capace di rispolverare (scusate il gioco di parole) atmosfere orrorifiche da colonna sonora degne di un Emerson o di un Simonetti. Ma non solo, l'opener “Antichrist” e la successiva “Kill Me” sono limpidi esempi di arte “cateniana” allo stato puro. Certo, i suoni sono più puliti, le chitarre ariose, l'atmosfera nel complesso meno opprimente ed asfissiante (non si respira certo quell'aria da cripta infestata di spettri che avevamo percepito in lavori eccelsi come “Detaching from Satan” e il già citato “In the Darkness”), ma il Chain c'è: c'è il suo riffing geniale, ci sono gli assoli da manuale, c'è la voce cantinelante che snocciola i consueti fonemi inventati. Lu Spitfire e Klaus Rosental assicurano una base ritmica dignitosa, perfetto compendio per valorizzare al meglio le improvvisazioni del chitarrista pesarese: è il maestro che detta i tempi, che sa quando è il momento in cui le chitarre si devono aprire per schiudere maestosi ritornelli, o quando le tastiere devono intervenire per iniettare pathos ed evidenziare i passaggi più significativi dei brani.

Nella successiva “Ancient Caravan” il Catena mostra di sapersi muovere in modo brillante anche in una dimensione più propriamente folk/medievaleggiante: la sua voce allucinata si sposa in maniera suggestiva al pizzicato della sua chitarra acustica, alle percussioni a mano e all'organo barocco di Sylvia Chain, e fino a questo punto ci troveremmo innanzi all'ennesimo capolavoro marchiato a fuoco da Chain. Con le due tracce successive, tuttavia, l'album scivola rovinosamente verso un banale (ma sempre ben suonato) hard/rock di marca settantiana, lustrato a dovere con suoni patinati tipici degli ottanta: qui probabilmente Chain ha dato sfogo al suo amore incondizionato per i gloriosi anni settanta, ma con dei risultati che finiscono per svilire i suoi sforzi soprattutto sul fronte dell'originalità e, come si diceva in apertura, su quello dell'atmosfera. “My Hills” nella prima metà si fa bella con un folk/blues un po' anonimo (poco incisiva la prova vocale), per poi esplodere nella seconda metà in un rock frizzante e sprizzante assoli a palate, ma privo sostanzialmente di mordente (fallimentare a priori da parte di un cantante poco dotato come Chain provare a scimmiottare Robert Plant). Le perplessità continuano con “Alleluia Song”, a partire dalla quale viene rispolverata la formazione con la quale marciarono dal 1982 al 1984 i Death SS, orfani in quel periodo del pilastro Steve Sylvester: il brano si apre con un coro a cappella in cui le voci di Chain e della compagna Laura Christ intonano un'aria sacra, per poi proseguire sulla scia di un hard/rock poco ispirato su cui la voce spiritata di Sanctis Ghoram (che a me piace assai, ma che in questo frangente non sembra capace di esprimere appieno le sue potenzialità) suona francamente fuori luogo.

Le sorti verranno parzialmente risollevate dai due brani successivi “Spirits” e “Cemetery”, brani che, se certo non sono annoverabili fra le pagine più brillanti scritte da Chain, hanno comunque il merito di ricondurre l'ascolto verso lidi più propriamente dark, restituendoci il Paul Chain che conosciamo ed amiamo. Non del tutto però, perché la pachidermia sabbathiana non si manifesta in tutto il suo peso, ma nel complesso i brani hanno un bel tiro, sospesi fra hard/rock delle tenebre e darkwave ottantiana: la batteria secca ed ossessiva di Thomas Hand Chaste e il basso essenziale di Claud Galley costituiscono i binari ideali affinché possano emergere da un lato la componente più teatrale e maledetta di Sanctis Ghoram, e dall'altro il chitarrismo free di Chain, foriero di riff putrescenti e assoli fulminanti (in particolare il secondo brano, che nei suoi quasi otto minuti costituisce un bel trip per l'ascoltatore).

Il tutto si conclude con un altro strumentale, questa volta ad opera di Chain stesso, che si diletta per l'occasione dietro ai tasti d'avorio di un organo riverberato che sembra provenire dai peggiori dei nostri incubi: fra occultismo e psichedelia, “Oblivious” fa riaffiorare il Chain più mistico che avevamo quasi dimenticato durante l'ascolto di “Life and Death”, ed è un peccato che il brano, scollegato dal resto dell'album, termini dopo nemmeno quattro minuti (ricordiamo la mezzora abbondante di “Our “Solitude (Birth, Life, Death)”, coraggiosissimo esperimento che aveva aperto l'ultimo full-lengh dei Violet Theatre “Opera 4th”).

Se potessi votare in decimi, direi 7/10; se potessi spezzare le pallette, darei tre palle e mezzo (arrotondate a quattro per la stima): questo per dire che il primo album ufficiale della carriera solista di Paul Chain è un lavoro più che sufficiente, un onesto e sincero prodotto che mette in mostra un lato inedito dell'artista, e che abbozza premesse importanti per il successivo fiorire della sua carriera solista, ma che infine rimane leggermente al di sotto delle aspettative che possiamo nutrire ogni qual volta ci avviciniamo ad un lavoro di questo straordinario artista.

 

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