Un'altro live dai Pearl Jam e non so se sia una presa per il culo, se faccia parte cioè di un circuito internazionale di SCHERZI A PARTE o se questi (o i loro manager, promoter e omuncoli grigi vari) sono alla caccia disperata di soldi (lo so, l'ho già detto in altre recensioni ma dai e dai qualcuno ci rifletterà e verrà sulle mie!). Non bastavano i 54 (?) doppi dischi live (quei famosi bootleg ufficializzati registrati nel mondo 3/4 anni fa) a testimoniare il loro rito collettivo live. Avanti allora con questo doppio album (solite manie di grandezza) a snocciolare i successi del gruppo in versione leggermente meno elettrica del solito. Anche stavolta ci si chiede il perchè di questa operazione ma, tanto la domanda quanto la risposta sembrano essere sempre quella, banale e scontata. Bello, caldo, passionale, insomma gli epiteti per definire questi 4 ragazzotti che ci propongono la solita minestrona rock con tanto di asoli, rullate, cori da stadio e le solite pagliacciate "daggiovane" buone solo per:
A) Fans coi paraocchi
B) rockettari dell'ultima ora che hanno scoperto il rock con Ligabue
C) rockettari della vecchia guardia (che vanno ancora a vedere quel rauco di Dylan ormai totem imbolsito e souvenir vivente di un mondo scomparso - miinchia che tempi - cazzo, quello si che era rock - e via con frasi più o meno simili)
D) Gente che grida "al capolavoro" appena uno di questi gruppi ormai in mano alle Multinazionali del Business (U2, REM, Madonna etc) fa un peto e lo stampa in milioni di copie.
Ripeto, un bel disco rock e... allora? È un copione che ho visto e sentito e continuo a sentire da almeno vent'anni, riciclando idee vecchi come il cucco con canzoni carucce ma moscie, senza mordente e facilmente dimenticabili nel giro di un paio di mesi. Torno allora alla carica con la mia proposta (che ho già lanciato tra i vari post e che qui ufficializzo con tanto di firma e timbro). La mia teoria che farnetico da qualche mese è questa: Ognuno dovrebbe avere un massimo di 5 dischi al massimo per esprimere o dire quello che ha da dire dopo di che STOP. Uno deve sapere che ha un limite oltre il quale NON può più fare dischi o altro e la sua carriera finisce e punto. Non è un caso che quasi tutti gli artisti DANNO IL MASSIMO nei primi 5 dischi (forse un paio in più, via) per poi immancabilmente riciclare se stessi e ripetersi dandoci lavori di onesto artigianato ma lontano dai momenti iniziali (da Guccini a Bennato, da Finardi a Sergio Caputo, dal Banco del Mutuo Soccorso alla PFM passando da Alberto Fortis, P. Daniele a Vecchioni etc). I veri grandi anche internazionali hanno dato sempre il meglio agli inizi quando l'urgenza espressiva è al massimo (Police, Genesis, Bowie, Smiths, Cure, Red Hot Chili Pepper e questi Pearl Jam etc) poi scemano, come è normale che sia, un po' perchè subentrano routine, concerti, scazzi interni, droghe, stanchezza, età avanzata, vizi e abusi vari e DIVENTA UN LAVORO vero e proprio. Chiaro, ci sono poi i Paolo Conte, i De Andrè o i Pink Floyd che hanno dato il meglio DOPO ma si contano sulla punta di una mano. Se esistesse davvero questa clausola state sicuri che le band o i cantautorini esordienti ci penserebbero non una ma cento volte, prima di dare alle stampe il loro prodotto: avverrebbe uno "scatto" di attenzionalità, cura e responsabilità non indifferente TOGLIENDOCI DALLE BALLE prodotti superficiali, scopiazzati e praticamente inutili se non per farci spendere inutilmente euri preziosi... non è questo il caso (tanto per essere chiari) in quanto quello dei Pearl è alla fine un rock sanguigno e onesto, come il lavoro di un bravo artigiano, quasi un calzolaio che crede in quello che fa e ci mette l'anima conoscendo alla perfezione le tecniche, il taglio, l'invecchiamento della pelle e il resto dei cazzi che sa. Il dilemma è uno solo: essere artigiani o essere artisti. Il dilemma è tutto qua. Qualcuno faccia qualcosa.
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