C'è chi va ai concerti per curiosità, chi per fare casino, chi per il piacere di ascoltare la musica dal vivo. E c'è chi va ai concerti perché ne ha un bisogno quasi fisico ed alla fine di quelle due ore ha prodotto una quantità tale di endorfine che il giorno dopo proverà una insopportabile sensazione di astinenza. Una dipendenza è sempre una dipendenza, quindi chiamiamo pure queste persone col loro nome. Chiamiamoli pure addicted-to-rock. Sono fermamente convinta che tra le fila dei fan dei Pearl Jam si annoveri un'alta percentuale di questi rock-dipendenti.

Ho visto i Pearl Jam per la prima volta a Roma nel 1996 e da allora ogni volta che sono tornata a vederli mi è sembrato di riconoscere alcune di quelle facce, che parlano da sole, e guardandole capisci che sono persone che hanno atteso quei live tanto quanto te, hanno fatto dei numeri pazzeschi per far conciliare tutto (lavoro, studio, famiglie, distanze geografiche ragguardevoli) e ora che sono lì sognano il concerto perfetto, la scaletta perfetta, pur sapendo benissimo che può essere pericoloso. I sogni raramente si avverano. Il sotto-popolo degli addicted-to-rock mercoledì sera scalpitava per entrare in Piazza Duomo, a Pistoia, e nell'attesa provava a razionalizzare: questa tournée dura da mesi, saranno sfiniti, e poi non hanno mica più 20 anni, ed è ormai la quinta data italiana, e il pezzo che volevo sentire l'hanno suonato giusto due o tre sere fa… Pensieri precauzionali…

Ma il primo colpo al cuore è arrivato prima che se lo potessero aspettare, prima ancora dell'apertura dei My Morning Jacket quando, dalla destra del palco, è spuntato lui, da solo, sicuro di sé come il re del mondo, e umile come l'ultimo operaio al servizio della musica: Eddie Vedder ci regala una struggente Throw Your Arms Around Me, la ballata degli Hunters & Collectors che non veniva suonata sotto i cieli d'Europa da ben 14 anni. Eddie saluta in italiano, presenta la band di supporto e canta con loro la prima canzone prestandosi per le seconde voci come un semplice corista. E' già estasi per il sotto-popolo in questione, per coloro che sanno come queste uscite siano rare, preziose, memorabili.

Ma per l'inizio del concerto vero e proprio i Pearl scelgono il loro lato selvaggio, e alla barrettiana e tiratissima Interstellar Overdrive segue quell'esplosione di orgoglio e veleno che è Corduroy introdotta da un giro di chitarre che prima è velluto poi diventa carta vetrata. Ci vorranno altre 5 canzoni prima di sentir diminuire i battiti del cuore: Rearviewmirror si rovescia come un tuono sulla piazza ed apre ad una quaterna estratta dall'ultimo album, che suona sicuramente più convincente dal vivo che su disco. Life Wasted, Worldwide Suicide, Severed Hand e Unemployable non brillano forse per originalità ma fanno saltare, urlare, hanno comunque una loro forza e testimoniano che quello che incendia il cielo stasera è il sacro fuoco del rock'n'roll. Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town arriva come la calma dopo il terremoto, con i 9.000 della piazza che la cantano parola per parola, e sarà così praticamente per tutte e 33 le canzoni (o gli anglofoni d'Italia stasera sono tutti qui, o non è vero che in questo Paese neanche i gggiovani sanno l'inglese…) così come la splendida Dissident: due perle di un album, Versus, che suonano meravigliose nonostante gli infiniti ascolti, e questo vale per quasi tutto il repertorio ultradecennale dei Pearl Jam: su questi brani non si è posata la patina malinconica del ricordo.

Non vale per loro quell'effetto un po' retorico e stantio che fanno alcuni pezzi del passato, anche dei veri classici, che ti incantano solo perché ti fanno ricordare un tempo che sembra migliore solo perché è già finito. Ci risulta che l'altra sera fosse la 502° volta che Alive veniva suonata dal vivo: e suonava come la canzone più bella del mondo. Così come Even Flow e Why Go (che ti confermano che si può tremare e sudare insieme), così come Given To Fly e Not For You, la cui coda sfocia in un assaggio di Modern Girl delle amate Slater Kinney, perché c'è una città da dove veniamo tutti quanti, in qualche modo, qui, stasera, ed è Seattle. In mezzo a quello che in qualche modo ci si poteva aspettare, ma che non per questo incanta di meno, arrivano perle (è il caso di dirlo) che spiazzano per bellezza e rarità. Si chiamano Breath, I Got Id, Crazy Mary e fanno salire le lacrime agli occhi. Letteralmente. Il primo Encore regala anche una strepitosa, lunghissima, commovente Black, con Eddie che alla fine si porta la mano sul cuore e ce la tiene ferma per diversi minuti cercando di dimostrare al pubblico il punto in cui conserverà tutto il calore, il sostegno e l'energia che salgono dalla piazza. Il secondo Encore tuona letteralmente, con (tra le altre) Last Exit, Do the Evolution, Spin the Black Circle: se qualcuno entrasse in piazza in quel momento giurerebbe che siamo all'inizio di un concerto quando l'adrenalina e la forma fisica sono ai livelli più alti, dopodiché non possono che scendere. E invece, incredibilmente, a quel punto, erano quasi tre ore che i Pearl Jam stavano suonando e quasi tre ore che il pubblico stava urlando e saltando ed è difficile stabilire se ci sia ancora più elettricità sopra o sotto il palco. L'accoppiata Rockin' In The Free World e Yellow Ledbetter significa, per gli addicted-to-rock, che il concerto finisce qui. Epico, indimenticabile, perfetto.

E se il risultato finale è, appunto, di perfezione, è perché i singoli elementi che vi concorrono non sono da meno: Matt Cameron, il miglior batterista che i PJ abbiamo mai avuto, Mike McCready, che ha smesso di far finta di essere Hendrix ed ha trovato la sua dimensione, Stone Gossard, ispirato, trascinante, la guida della band, Jeff Ament, che avrà sempre 23 anni, ed Eddie Vedder, la più grande voce del rock tutto. Sono loro, sono i più grandi, e sono qui per noi. I Pearl Jam si sono innamorati dell'Italia, è ufficiale. Queste 3 ore di musica, queste 33 canzoni hanno riversato autentiche ondate di passione su chi ha avuto la fortuna di sentirle (nel senso di "to feel") dal vivo. E mentre gli addicted-to-rock lasciano la piazza, sentono salire dentro una sensazione che conoscono benissimo, quella della fine di un sogno, di un momento che si cristallizza in ricordo. Per sempre. Ora, forse, la più triste delle lezioni che si imparano crescendo è che è bene non sognare troppo. Lo dicevamo all'inizio: è solo perché raramente poi i sogni si avverano, mica per altro. Un concerto come quello dell’altra sera è un modo fantastico per dimenticarsi di questa lezione e di chi ce l'ha insegnata.

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