Signora dell’isola, a volte Dio si manifesta, e se anche fossero solo menzogne, ti prometto bugie meravigliose con cui poter vivere.

Tom Rapp “ Island Lady”

Non pensavo in soffitta di avere lasciato incustodite tutte quelle perle e di aver completamente trascurato ogni regola di civile osservanza, lasciando in spregiudicata vicinanza, direi quasi a contatto, quella gemma del vinile dei Love di “Da Capo” con una protozoica console della Nintendo. Ma i traslochi si sa sono attività spesso logoranti e spesso generano appunto, domestiche contraddizioni. Invece nell’ombra di un angolo abbandonato, queto e ramingo sotto le vestigia di quella lampada Tiffany, di cui mantengo solo un vago ricordo di quel balzo felino che mi aiutò a scansarla nel suo volo assassino, riposa beato il vinile di City of Gold , quarto o quinto album dei mai dimenticati Pearls Before Swine. E allora rifletto, ma quante contraddizioni, quell’album il cui ascolto mi ha reso sempre così sereno e gioviale, accostato sotto quella lampada che mi rimanda ad un episodio, che non fu memorabile ma neanche banale. E quindi l’odio e l’amore, possono coesistere sotto l’ombra e la polvere di quella soffitta, in amato silenzio per tutti quegli anni ?

Ma poi, ascoltando bene l’album, questo City of Gold , dopo tanti anni, sono ancora veramente sicuro che si tratti di una musica, che rende così gioviali e sereni?

...

Another Time

Did you ever capture
All those jewels in the sky?
Did you find that the world outside
Is all inside your mind?
Or have you come by again to die again?
Well, try again another time.

Nella copertina del vinile, un uomo con la faccia da topino, oppure un topino con la faccia da uomo, fate voi. Uno strano sorriso che dipinge di buffo quel volto, smarrito ed in attesa di chissà quale stella cadente, la puntina però si abbassa ancora una volta sfidando ancora tutte le leggi e ssssss... miracolo quella meccanica si converte ancora in radiosa elettricità. E quindi si aprono le porte alla percezione di quella ritmica barcollante, si la ricordo bene, che sembra uscire da un mondo felicemente narcotizzato, un altro ecosistema sorretto, credo da leggi di un’altra fisica, un bizzarro Moyen Age intriso di zuppe e venature bibliche, trapiantato tra le piantagioni del Midwest.

Rovine tardo romaniche di fuggente bellezza, perle divine abbandonate tra discariche e americana overdose. E poi il mondo non aveva bisogno di Lui , anche se era in effetti più alto di Dylan di ben 10 cm .

E sempre quell’omino, un po' hippie un po' cow boy, che tesse quel canto tanto garbato e delicato quanto aritmico, come quel cantico degli angeli caduti in quell’esilio, alla deriva del tecnicismo vocale ma alle porte di quella magia sconcertante. Si allontana da quella folla, beve da una brocca quello sputo caldo, ma è suo, quindi è sacro e non importa. Quel giovanotto si chiamava Tom Rapp, aveva calzoni corti e gambe esili come fusti di giunco quando appena dodicenne ad un concorso folk per giovanissimi talenti arrivò secondo davanti a quel tale Bobby Zimmermann, appena dietro quella fanciulla vincitrice, avvolta dal mistero della sua giovinezza e anche da un succinto vestitino rosso di paillette. Dicono che la vita, a furia di seviziarlo e torturarlo a morte, poco alla volta lo faccia scomparire quel Genio. Ed il tempo, con il suo incedere spietato è infine sovrano. E accade anche che un un poeta anticonformista come Rapp, con quell’estetica integralista e poco propensa a mediazioni con il prossimo, possa infine patteggiare quella resa con il suo spirito, trovare infine quella tregua .

In quella civitas, in quello studio legale, celare quella profondità congenita dietro quegli occhiali delicati che si arrampicano sul naso. E poi diciamolo, tutta questa arte e bellezza, ma tutti teniamo famiglia. Certo che se i Pearls Before Swine avessero avuto un minimo di consulenza legale quando erano solo deliziosi fricchettoni e fossero stati meno inebriati da quegli estasianti assoli di marimba e vibrafono, probabilmente sarebbero evitato di firmare quel tombale contratto capestro con zero royalties con la Reprise. Ma che ricchezza universale quella trasandata folgore di quei primi album, quella natura rivoluzionaria e quel cambio di paradigma con l’estate dell’amore, associato a quella virtù francescana. I primi quattro album sono portatori, in egual misura, di amore e sventura, come i Cavalieri dell’ Apocalisse. Il quinto album è quel brutto anatroccolo che più lo ascolti, più in quello stagno impari a sguazzarci come un Principe. Da lì in avanti un tappeto di rare gemme folk , disseminate qua e là tra commensali e spezie esotiche.

Come diceva anche Tom, in quell’antico sermone della Montagna “ Non dare ciò che è santo ai cani; non gettare le tue perle addosso ai porci “. Ma poi perché masochisticamente chiamare una band Perle prima dei Suini quando in quegli anni ‘70 le ragioni sociali erano una scintilla di libertà e testosterone, tra quelle Pietre Rotolanti, i Messaggeri di argento vivo o addirittura quei simpaticoni e neo-liberisti del Grande Fratello e La Holding .

A dire il vero Rapp, che già esercitava la professione di legale da qualche anno, era affascinato da quel rinnovato interesse nei suoi confronti. Venne chiamato da un vecchio manager per un concerto ed una riedizione dei Pearls Before Swine nel ‘97 a Terrastock, fu un successo. Da lì in avanti alcune bands si riunirono e misero insieme un album tributo, "For the Dead in Space", con gruppi come Bevis Frond e Damon & Naomi (ex Galaxie 500). L'album, pubblicato sotto l'etichetta Magic Eye, sorprese il suo produttore vendendo diverse migliaia di copie.

Un successone rispetto al periodo in cui Rapp decise di abbandonare la sua passione ed iscriversi a giurisprudenza, nel 76, alla vigilia della rivoluzione punk, potevi trovare i suoi album tra gli scaffali delle occasioni in economica a 99 centesimi, insieme al Greatest hits delle Supremes ed a New Juke-Box Hits di Chuck Berry.

Il primo album della band “ One Nation Underground “ e’ un album con delle canzoni fantastiche e canta di quell’inverno della solitudine, che fa molto tendenza in quell’ estate dell’amore. Non c’era proprio nessuna volontà di conformarsi alla controcultura corrente, al beat ed al rinascimento, quella musica strafottente richiamava proprio un “ bizzarro Moyen Age intriso di zuppe e venature bibliche “ . La prima canzone si chiama Another Time, parla di un altro tempo, ma in un certo senso parla anche dei nostri tempi, di quell’ego disperso, particella in dissolvenza e multiforme tra condivisioni plurime e disseminate per l’universo. Ma anche di quella indifferenza preistorica, quella patina invisibile che separa le vite, melodia unica in cui il timbro semi ascetico della voce di Rapp si confonde con stranianti incursioni di vibrafono, clavicembalo, celesta. E nonostante quella voce straniante di Rapp, quel delicato sigmatismo di Venere, che sembrava nascere libero e sdoganato dalle fonti di quella musica. Nonostante quella copertina di tenebra del “Giardino delle Delizie” di Bosch, con tutto quel supplizio di anime impalate dalle corde di un’arpa, al cospetto delle altre decisamente più fortunate e solo abbattute infine da quello sciame di frecce sulle natiche. Ma copertina sicuramente più soave di quella del secondo album Balaklava che in bellavista presentava Il “Trionfo della Morte" ed il canto funebre di Pieter Bruegel il Vecchio, che annunciava quel cantico di persone casualmente impiccate, strangolate, decapitate o più semplicemente bruciate vive. Una one man band proveniente da un altro tempo, arcaico e lontano, con altre concezioni della vita, della socialità, con quei colorati versi delle loro canzoni che erano in fondo piroette danzanti appena sopra il livello della Ragione, che fungevano da contraltare ad una cupa concezione dell ’Amore ;

Corpi sui corpi

Come sacchi sugli scaffali

Le persone si stanno usando a vicenda

Per fare l’amore con se stesse.

E se la ritmica dei Pearls Before Swine, prima di staccarsi delicatamente in volo da quella Mother of Pearl e planare con quella soffice delicatezza in quel caleidoscopio di suoni d’antan, tra arpeggi di celesta e battenti di vibrafono ad accompagnare il canto a volte straziante, a volte grave di Rapp, molto deve a quella corrente ascensionale fatta di elegiache e Dylanesque carezze, sotto l’aspetto testuale e narrativo l’ombra spirituale di Cohen è presenza eterea. Perchè quel silenzio, quel sottile microsolco tra i versi, è fonte stessa di quell’ oasi che resta la forma di vita più vicina alla pace della poesia. E certo che come Cohen, anche i PBS, anche se per pochissimi ciò fu evidente, avevano delle spalle forti, larghissime per farsi portavoce della tristezza e della solitudine. Ed era come svelare, solo con quello sguardo celeste assorto nel silenzio, quell’enigma eterno, di gettare infine e con misericordia, quelle perle addosso alla foga di quei cani e di quei suini, con quella mano tremante nascondere la luna e quel dissolversi con grazia cristallina.

Perchè un poeta, come lo era Cohen, come lo era Rapp, non solo non veste un abito ma si mostra a tutti anche senza la protezione della sua pelle, perché nel mondo sotto deve esistere, per forza, pure altro, anima, spirito e nervo. E Amore, scritto, cantato ma mai necessario...

...

City of Gold

Le cose belle hanno la durata di un soffio e in effetti quest’album, in quella girandola di colori, variegata come quella vetreria Tiffany, in frantumi a pochi centimetri dal suo innocente bersaglio, quando è ora di salutarlo è già commiato. Un po' come in quelle feste di un tempo, in cui incontravi quella femme bellissima e misteriosa, che con un suo sorriso ti regalava quella petrarchesca boccata d’ossigeno nel mezzo di tutta quella tossicità dantesca, e poi quando era il momento di approfondire la sua conoscenza, colei si era già ritirata nelle sue regali stanze senza lasciare traccia ed avvolta da quell’invisibile silenzio.

E tu, tra l’incredulo e lo sbigottito, facevi rientro al tuo Pianeta delle scimmie.

Lo chiamavano Alt Folk i fini conoscitori di genere, ma inorridivo, nella mia ignoranza premetto , quando incontravo Pearls Before Swine negli scaffali della psichedelia, questa musica non ha una semplice catalogazione, ma di psichedelico ha solo il sigmatismo di Rapp credo.

Una manciata di minuti, ventotto, per undici canzoni servite su un tappeto tra arazzi di viola e clavicembalo. Una inclinazione country che molto deve a Nashville, dove è stato prodotto l’album insieme al precedente The Use of Ashes , un’atmosfera delicata e malinconica, arricchita dalla crema dei turnisti locali, che erano soliti suonare per Arthur Lee, J.J. Cale, Roy Orbison. La moglie Elisabeth Rapp canta magnificamente nella cover di Judy Collins My Father, un ricordo ed una riedizione del complicato rapporto paterno di Rapp, in pratica un sequel testuale della versione di Rocket Man presente nell’album precedente, stesso brano che un candido Elton John ammise di avere utilizzato come ispirazione principale, pur snaturandolo e togliendo dal carrello tutta quella malinconia del testo così poco user friendly.

E qui siamo in quell’ovattata punteggiatura del folk da camera, con il basso sapiente di Norbert Putnam che detta il ritmo ad una batteria discreta e minimale,

Ma in questi 28 minuti che a me hanno sempre un po' tolto il respiro, c’è anche tempo e spazio per proiettarsi oltre Nashville e nella Polinesia Francese. Per l’esattezza planare su quella cover e nel ricordo delle ultime stagioni di quel Moribonde Jacques Brel , in quello sguardo saggio sulla vita da quel letto di morte, quel cantico durante quella fine annunciata di quell’ anglofona Seasons in the Sun . Delicatissima cover appena pizzicata da un lieve accenno di oboe e viola, con un arrangiamento di travolgente semplicità, fedele all’originale ma con quel marchio di fabbrica PBS di bellezza senza tempo. Solo tre anni dopo questa versione fantastica, la successiva cover del canadese Terry Jacks di Seasons in The Sun, abominio che sarebbe dovuto essere prima percosso e poi perseguito, rientrò in quel carrello e si apprestò a conquistare il pianeta delle scimmie vendendo oltre 10 milioni di copie.

Ma io chiedo al mondo solo una cosa, anche nella più totale delle sconfitte, lascia che possa conservare per sempre questo vinile tra ombra e polvere, regalami l’ascolto delle canzoni scritte da Rapp in ogni momento della giornata , rinfresca il mattino con quella celestiale armonica di Charles Mc Coy in Once Upon a Time, quella oasi country dove ogni misero viandante di questa terra possa abbeverarsi da quella fonte magica, in quella bolla sospesa tra Bluegrass e Honky Tonk, tra ranchers, banjo e whisky del Tennessee .

And now you look around you
See her everywhere
Many use her body
Many comb her hair
In the hollow of the night

E non mi importa niente di andare all’inferno, per aver detto che una cover di Cohen, può arrivare ad essere più intensa di una canzone di Cohen. Perchè le cose vanno dette e le sensazioni vanno esternate e questa versione di Nancy, con questo respiro ancora più ansimante rispetto all’originale , questo pizzicare le corde della chitarra sotto una sottile linea gotica, quelle trame di violino e clavicembalo di David Briggs, probabilmente riescono in quell’impresa soprannaturale.

Prima dei titoli di coda, per un album che e’ solo un attimo di gioia con quell’aspettativa di uragano sospesa, sopra le nostre teste, quel sognare le rose prima di toccare le spine, chiude Did you Dreams of Unicorns. Brano che anche in un album che i critici definiscono minore, è una delle più belle e struggenti canzoni di Rapp . E quell’osservanza di tutte quelle regole , dice Rapp nel testo, fa avvertire una strana sensazione di freddo, ti chiede se quello che si prova è amore o un sorriso prima di svanire. Io non saprò mai se da quell’intreccio magico di pianoforte e clavicembalo, da quel magico suono che sento da quegli unicorni, dai fiori che si stanno aprendo, da quel silenzioso rossore, scorre amore o solo un sorriso che svanisce prima di morire. Non so se infine i petali si apriranno o saranno tutti schiacciati.

Ma ringrazio e ascolto tutto questo dono misericordioso, con gioia e stupore.

Jesus, Jesus, Jesus, Jesus .

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