Che strani animali i pinguini. Impenetrabili e alteri.

La crudeltà della clausura forzata, che oggi mi pare insopportabile, allora non mi tangeva.

Ero soltanto fremente d’impazienza.

Finalmente li vidi.

Quella teca dell’acquario di Genova è rimasta nella mia memoria.

Solo molto tempo dopo, al ricordo dei pinguini veduti si è venuto a sovrapporre, senza che io lo volessi, quello dei pinguini ascoltati. Altrettanto alteri ed impenetrabili. Altrettanto ammalianti in quella loro doppia vita.

Nella mia testa ho cucito insieme frammenti diversi.

Difficile parlarne.

In quella teca da mostra, che giace impolverata nella mia memoria, vi sono cinque piccoli universi sonori.

È sempre una sorpresa togliere la polvere con la mano e scoprirli ancora guizzanti e variopinti, non intaccati dal tempo.

Le parole non sono certo adatte per descriverli.

Per altri, quei nembi variopinti sono soltanto i cinque album in studio della “Penguin Cafe Orchestra”.

Per me sono anzitutto soavità uditive.

Chi le abbia pensate e registrate, il quando e il come, son cose che non m’importano veramente.

L’aria vibrante di quelle melodie, il loro perfetto equilibrio tra il colto ed il popolare, la loro inconfondibile giocosità: quello sì che mi interessa.

Ognuno di questi piccoli universi, a prima vista così simili, vibra in modo impercettibilmente differente; come variazioni sul medesimo tema, come ritratti in divenire di un medesimo pinguino.

Anche quando restano sepolti per lungo tempo, in quel luogo troppo remoto —anche quando per anni non mi trovo, nel vano tentativo di ammirarne meglio le fattezze, ad appannare il vetro col respiro— il loro sapore non mi abbandona.

Sì, il loro sapore.

Come descriverlo? C’è davvero un modo adatto per descriverlo?

Le parole non sono adatte, punto.

Servirebbero segni più consoni, mezzi più simili alla natura impalpabile di questi cinque universi. Ma non parole.

Forse basterebbe una scatola di pastelli Giotto, qualche foglio ruvido, folte schiere di tubetti, una tavolozza di acquerelli meno consunta della mia. Oppure, meglio ancora, tre o quattro vecchi ed odorosissimi inchiostri di china colorata marca Winsor & Newton e della carta porosa.

La brillantezza di quelle melodie, la loro vita, come trasformarle in risultati statici, forme ormai condannate al silenzio? Impossibile, senza tradirne la natura.

Ecco.

A guardar meglio, la teca è una scatola di latta. Dentro, cinque caramelle.

La prima è al rabarbaro e miele, la mia preferita.

La seconda è all’anice. Aromatica e persistente.

La terza ha un sapore indecifrabile. Sa di terre lontane.

La quarta è inebriante e un po’ stordente, a metà tra la lavanda e il biancospino.

L’ultima è la più amara. Ha mille sfumature, mille inafferrabili dettagli, mille tessiture sovrapposte e intersecate. Eppure il gusto è semplice e terso.

Quel che sorprende di quest’ultima, è però soprattutto l’incarto: a stenderlo, con lieve fruscìo, appare un pinguino funambolo, incorniciato da una scritta: “Union Cafe”.

Un pinguino magicamente in equilibrio, tra la gaia malinconia e la malinconica gaiezza.

I due sentimenti sembrano la stessa cosa, eppure tra loro v’è una distanza incolmabile.

Proprio in quello spazio —tra la gaia malinconia e la malinconica gaiezza— vive (o meglio, ahimé, visse) la melodia di quel funambolico pinguino.

Presto cadrà giù. All’improvviso.

E non potendo volare, non potrà più tornare a volteggiare sul suo filo.

Il suo magico equilibrio chi potrà più rimetterlo in piedi?

Nessuno, temo. Almeno non con la stessa leggiadria.

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