Introduzione:
Il chitarrista britannico Peter Banks, uno dei tanti magnifici perdenti dell’era progressive settantiana, ci ha lasciati ormai da quasi otto anni, vittima di un infarto fulminante che l’ha sorpreso quand’era in casa da solo. Aveva sessantacinque anni.
E’ stato un grande e sostanzialmente sfortunato artista, meritevole di qualche parola di rimpianto e di rimembranza.
Ah, dimenticavo qualche necessaria nota per i musicofili più allergici alle info biografiche: Banks ha fondato nel 1968 gli Yes (ideandone anche lo stesso nome) insieme al cantante Jon Anderson ed al bassista Chris Squire; una volta cacciato dal gruppo tre anni dopo per fare posto a Steve Howe, ha fondato e guidato per tre dischi il quartetto dei Flash, inopinatamente sciogliendoli per correre dietro a un orrido progetto chiamato Empire che vedeva sua moglie come cantante. E poi il quasi oblio, interrotto solamente da sporadiche pubblicazioni soliste, a fatica reperibili in rete.
Contesto:
Questo disco è datato 1973, con il chitarrista che ha appena mollato il progetto Flash ed è il primo, oltreché il più noto e diffuso (si fa per dire) dei cinque o sei album solisti, non di più, pubblicati dal nostro.
Il destino è stato generoso con lui nei primi anni di carriera, proprio fino alla pubblicazione di questo lavoro, e poi perfidamente avaro per tutto il resto della sua vita, che l’ha visto immeritatamente sparire dai radar e doversi accontentare di collaborazioni di secondo piano, nonché di iniziative a proprio nome dai poverissimi riscontri.
Ma più che un disco solista, l’opera è in realtà il parto di un duo chitarristico: è copiosa e basilare infatti la collaborazione del collega ed amico Jan Akkerman (al tempo nei Focus), sia in fase compositiva che come effettiva presenza strumentale.
Abbastanza simili come stile, nel senso di una comune sensibilità verso il jazz e la chitarra classica, e quindi a favore di suoni puliti e cristallini nonché di panorami sonori improvvisati e comunque mai troppo strutturati, i due amiconi imperversano a destra (l’olandese Jan) e a sinistra (il londinese Peter) dell’immagine stereo, stendendo canovacci d’atmosfera e poi spesso e volentieri puntualmente abbandonandosi a libere improvvisazioni. Il disco sembra insomma inciso in quattro e quattr’otto… io porto un’idea e voi (l’altro chitarrista e la sezione ritmica) venitemi dietro, e contribuite pure al “brano”, che c’è posto per tutti.
Un disco strumentale e oltretutto semi improvvisato dunque… non certo cibo per tutti i musicofili, non per quelli almeno che hanno bisogno di strutture ben definite, strofe e ritornelli, storie e cantati per gustarsi la loro musica rock.
Punti di forza e lacune:
Beh, dal mio punto di vista personale la forza dell’album coincide soprattutto col fatto che sia di Peter Banks, gran perdente di talento con tutto il fascino della persona e dell’artista messo da parte e dimenticato ingiustamente. Inoltre mi attira il suo modo di suonare, assai personale e brillante, mai pretenzioso e scevro dai cliché blues e rock blues… un vero cane sciolto, libero e creativo particolarmente col pedale del volume e con l’altro pedale, il wha wha.
E poi ci sono i musicisti ospiti, che allora un Banks sulla cresta dell’onda poteva permettersi di vedere accorrere in studio con lui: ci sono qui e là Phil Collins e Steve Hackett dei Genesis, John Wetton allora nei King Crimson, gli ex compagni dei Flash Ray Bennett (specie di Chris Squire dei poveri) e Mike Hough (lui invece specie di Phil Collins dei poveri).
La lacuna l’ho già introdotta precedentemente: siamo in pratica in presenza di jam sessions… certo rafforzate da temi melodici e ritmici studiati e affinati in precedenza o in corso d’opera, ma il senso decostruttivo ed estemporaneo prevale e potrebbe tediare chi cerca dal rock e dal pop forme precise e arrangiamenti studiati.
Insomma, quest’opera è del tutto lontana da qualsivoglia canone commerciale! Nel 1973 si poteva ancora… almeno per un giro.
Vertici dell’album:
Gran bella atmosfera quella del dittico “The White Horse Vale”, in realtà vera e propria suite di oltre sette minuti con parti di chitarra classica, crescendo entusiasmanti delle due chitarre acustiche, divagazioni con eco ribattuto e finalmente una parte corale, squisitamente in Yes-style, con gli strumenti elettrici a cavalcare all’unisono sospinti dalla batteria in piena spinta.
Forte anche la successiva “Knights” che interviene senza interruzione di continuità ed è anch’essa multipartita: si dipana in un lungo solo in crescendo di Banks, che inizia su ritmiche rarefatte e atmosferiche per poi serrarsi in un break rock senza respiro e alfine divagare in altri temi più o meno corali, cambiando tempi e situazioni a capocchia come solo la musica progressive è capace.
Il resto:
Abbondano le situazioni atmosferiche con le due chitarre che dialogano a colpi di assolvenze col pedale del volume, senza coinvolgere la ritmica. Suggestive ma anche un po’ troppo proto new age…
E poi c’è la traccia numero sette “Beyond the Lonelinest Sea” che è sostanzialmente un saggio di Jan Akkerman allo strumento classico, con il titolare dell’album a ricamarvi appena intorno qualche nota in assolvenza. Composta interamente dall’olandese, che ci fa in un disco del suo amico?
“Stop That!” verso la fine è una pura jam session di oltre tredici, interminabili minuti, che si attorciglia su di un unico accordo, tenendosi a lungo delicata ed evanescente per poi rafforzarsi finalmente ma presto tornarsene indietro ai ceselli iniziali: tediosa, malgrado Collins ce la metta tutta. Sicuramente creatasi in studio al momento, senza nessuna parte preordinata.
Stessa cosa per la conclusiva ”Get Out of My Fridge” (“Stai lontano dal mio frigo”… sempre suggestivo il pensiero su come ai musicisti vengano i titoli dei loro strumentali! Chissà quale situazione fra di loro avrà battezzato questa canzone…): un semplice canovaccio ritmico decisamente rock consente ai due chitarristi di battagliare per tutto il tempo, scambiandosi gli assoli completamente improvvisati ogni quattro battute, e via.
Giudizio finale:
Una chicca per gli estimatori del progressive, degli Yes, della musica destrutturata e semi improvvisata, per i dischi che non partono da nessun punto e non arrivano da nessuna parte, ma sono pieni di brava gente che ci dà dentro col proprio talento artistico e con la propria capacità di adattarsi e unirsi agli altri. L’idea del jazz portata nel rock. Per tre quarti del tempo musica improvvisata in studio al momento (da gente perfettamente in grado di farlo), integrata da qualche bel tema “cinematografico”.
Peter Banks è morto solo come un cane e con ben poca gente a rimpiangerlo (nessuno dei prodi Yes al suo funerale, per dire): meritava di meglio ed io gli voglio bene.
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