“Do you want a man of steel? Or do you want a man that’s real…?”
A voi la scelta.
In realtà, la risposta è implicita in questo disco. Chi aveva già fatto la conoscenza di cotanto (speciale) Personaggio, quella risposta la conosceva già. E magari una conferma non gli sarebbe servita neanche. Ma lo sfido a dire che avesse già previsto (tutta) la bellezza cristallina del Peter Case del 1986.
Da parte mia, è un’altra la domanda che non smetto di farmi. Mi chiedo sempre cosa avessero in testa quelli della Geffen, quando lasciarono carta bianca all’uomo che coi Plimsouls era valso la 186esima piazza delle classifiche USA. Certo, era un po’ scherzare col fuoco. I colossi del mercato preferirebbero sempre un man of steel a un man that’s real - che spesso equivale a dire: uomo che ha strani grilli per la testa. E qualcuno lo chiama Genio, qualcuno lo chiama estro. La legge dei numeri è di diverso parere e per chiamarlo usa quasi sempre la stessa definizione: fallimento commerciale.
E comunque, che importa. Mi piace pensare che in un certo senso sia stato bello scherzare col fuoco. Il contratto era lì, il copione già scritto: tre dischi e a casa, e tanti saluti. Come da prassi. Giusto per onorare gli impegni. Mai fiducia fu meglio riposta, però. Perché non capita a tutti i manager d’aspettarsi un disco d’esordio e di avere in cambio un volume rilegato di Enciclopedia della Musica Americana (e basta…?).
Produce T-Bone Burnett (a proposito di enciclopedismo), che si porta Peter nella “sua” Fort Worth e lo fa protagonista di un film da girare in Texas - colonna sonora densa di folk e blues, ingredienti di prima scelta ma cui solo la classe del songwriter di razza – venuto su a pane e power chords - può dare il sapore che serve. Nel cast: John Hiatt (il duetto di ‘Horse and Crow’ starebbe bene sui titoli di testa), Van Dyke Parks (a proposito di enciclopedismo, parte seconda), Mitchell Froom, Roger McGuinn, Mike Campbell degli Heartbreakers, Jerry Marotta, l’allora signora Case Victoria Williams. E altri ed altri ancora, che mi perdoneranno se non voglio che questa pagina sia (“solo”) la rassegna di Quanti hanno partecipato – no, di più.
Sì, ma… musicalmente, com’è – Peter Case…? Risponderò: è “soltanto” l’America + il resto del Mondo, se è vero che “Echo Wars” – non certo l’unica – suona parente stretta del T-Bone Burnett di Proof Through the Night, etichettato come World Music non solo per amore delle solite scomode etichette. L’America è l’organo, il mondo (oltre l’Atlantico, emisfero sud) sono le percussioni – volendo cercare una metafora in ogni suono: ma l’America e l’Africa non sono che due gemelli separati dopo la nascita, e la musica sa spiegarlo meglio della teoria sulla deriva dei continenti.
Solite etichette, solito (same old) blues: quello di “Old Blue Car”, magari, e il termine essenziale non verrà usato invano – buono anche per “Walk in the Woods”, una cosa nuda da session estemporanea, degna del folksinger di strada che a San Francisco (non) aveva trovato casa parecchi anni prima. O il blues di “Icewater” strappato a Lightnin’ Hopkins, un passo della Bibbia del Blues texano riletto con parole proprie; o quello del 1986 di “More Than Curious”, perché a volte anche una drum machine sa essere maneggiata con sapienza. E non so quanti altri bianchi, all’infuori di un certo Stan Ridgway (si parlava di Blues moderno…) abbiano impresso a un’armonica quel suono pungente di “Three Days Straight”. E ancora, l’atmosfera di “Small Town Spree”: perché il Dylan di Oh Mercy non è di sicuro arrivato per primo ad evocare certi brividi.
Il Peter dei Nerves? Quello è tutto in “Satellite Beach”, qualcosa che è già un testamento artistico. Non la ciliegina, che si chiama “Pair of Brown Eyes” e che, manco servirebbe ricordarlo, è opera di un Irlandese dalla dentatura caratteristica.
Canzoni che suonano di America, ma non parlano di America.
I didn't know any songs about America - these songs are about sin and salvation. Have fun.
Love, Peter Case
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