Che i tempi del gatto siano finiti anni addietro, questo lo si sapeva già. Ma credo che ascoltando l'ultima fatica di Peter Criss, "One For All", nessuno si aspetti una musica cosi poco convincente, da colui che infondo aiutò a scrivere un importante passo nella storia dei Kiss.

Nel lontano 1978  Peter Criss si cimentò già in un altro lavoro solista, seguito dai suoi quattro compagni baciati dalla fortuna, producendo una piccola genialità che sapeva addirittura riprendere il sound e l'atmosfera dei Beatles: insomma, niente a che vedere con questo disco, che esce precisamente ventinove anni dopo. Eh si, i tempi cambiano, le persone cambiano! Ai tempi Peter era irrequieto, strano e molto molto insicuro mentre oggigiorno troviamo un Peter stanco, malinconico e forse anche un po' deluso da ciò che per lui è stata l'esperienza di diventare un icona Americana, ovvero una miscela di varie sostanze tossiche, un gran senso di autodistruzione ma soprattutto uno spreco di soldi pazzesco.

Queste sono infatti le uniche cause della situazione cupa e tetra palpabile nel disco poiché musicalmente è di fatto suonato abbastanza bene (semplicità di batteria a parte), e la voce di Peter del 2007 non ha niente da invidiare alla voce di Peter degli anni settanta. Ma obbiettivamente l'unico gesto veramente difficile da compiere quando si ascolta il disco è arrivare alla fine.

Qualche sprazzo di originalità è comunque presente: il brano d'apertura "One For All" non è malaccio, uno dei pochi abbastanza ascoltabili del disco, a parte il ritornello finale ripreso a coro alla My Oh My degli Slade: sembra che Peter abbia riunito un gruppo di bambini nella cantina di casa e li abbia ripresi con un registratore di suoni... avrei potuto fare di meglio io col mio impiantino non-professionale.
Passando per gli altri pezzi si va di male in peggio, il ritmo del disco è lento e fiacco, e non si riesce quasi a distinguere una canzone dall'altra. "Doesn't Get Better Than This", "Last Night", "Faces In The Crowd" sembrano far parte di un repertorio da pianobar, ci si potrebbe quasi immaginar la scena di Criss seduto tutto da solo in un angolino con le sue parti campionate e il suo microfono mentre intrattiene un pubblico che non lo degna di uno sguardo, passando da vecchie canzoni di Sinatra alle sue nuove false perle.
Di chitarra e basso non c'è quasi traccia e solo quando essi si fanno sentire i brani acquistano un minimo (ma proprio minimo minimo) di dignità in più: "Hope" e "Whispers" ne sono l'esempio.

Credo che comunque il punto più basso del disco sia la canzone che dalla critica è considerata la migliore del disco, ossia "What A Difference A Day Makes", cover di una canzone popolare spagnola scritta nel 1934, e praticamente una delle canzoni più assillanti e annoianti che abbia mai sentito, che facilmente si potrebbe usare come sonnifero contro l'insonnia. Per quasi cinque lunghi minuti il nostro povero artista canta e si commuove come il personaggio da lui scelto, ma è veramente impossibile non schiacciare il bottone dello stereo che manda avanti il pezzo.

 Povero Peter Criss, alla fine risulta una figura molto triste che ha sempre avuto un complesso di inferiorità e che è sempre stato considerato un buono a nulla. Ma spero che sappia qualcuno lo ricorda per Beth, Hard Luck Woman e Black Diamone, piccoli capolavori scritti e interpretati da un talento sprecato.

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