Viviamo in tempi molto strani e ciò per tanti motivi. Una considerazione di questo tipo mi è sorta improvvisa proprio l'altra sera. Mi trovavo a fare quattro passi nel quartiere dove risiedo, portando a spasso il mio cane e caso vuole che abbia incrociato un uomo giovane, sulla trentina d' anni, tutto intento a chiacchierare al cellulare con qualcuno. Nel bel mezzo della conversazione l'ho udito chiaramente esclamare in tutta serietà " Fedez è un genio musicale!". Ho subito pensato: "Ohibò, forse mi è sfuggito qualcosa." E da qui ho dato il via ad una mia riflessione di carattere generale. Poiché se è pacifico concordare con la massima latina "De gustibus non disputandum est", nondimeno è facile per un baby boomer come il sottoscritto non sentirsi invogliato ad esplorare le proposte musicali di rappers come Fedez (e non solo) che tanto vanno per la maggiore. Ammetto che la mia sia una forma di pigrizia mentale verso ciò che è nuovo, ma dopo quanto udito mi sono chiesto semmai cosa può rendere un musicista così bravo da meritarsi la definizione di "genio", così come viene inteso dai tempi di Bach in poi. Se solo dovessi stilare una lista di geni musicali dovrei elencarne talmente tanti da correre il rischio di dimenticarne qualcuno. Non è il mio intento in questo caso e semmai scelgo l' ascolto e la recensione di un lp, fra i tanti presenti nella mia collezione, considerato opera minore di un musicista jazz fra i meno noti ma non per questo meno valente nel solco di quel jazz più sperimentale secondo la lezione free da Ornette Coleman in poi. Sto parlando di Pharoah Sanders e del suo album "Village of the Pharoahs" pubblicato nel 1973.

È certo quest'ultimo un disco non fra i più noti incisi da Sanders (sarebbero semmai consigliabili "Karma" e "Black unity") ma il rapporto che si instaura con il flusso musicale di "Village of the Pharoahs" è, almeno per quanto mi riguarda, all' insegna dell' immersione ipnotica completa. È sempre stato così fin da quando, ancora studente liceale, coltivavo con i coetanei l'ascolto di certa musica alternativa , molto distante da alcune derive glam del rock di metà anni '70 che non sempre sembrava convincente.

Propizia è stata pertanto l'occasione di udire quella qualifica di genio affibbiata ad un rapper come Fedez per seguire un flusso di pensieri su cotanto tema, per poi approdare all' ennesimo riascolto di un vecchio polveroso lp di mastro Sanders. In particolar modo ad attrarmi è il lato A occupato da una suite che dà il titolo all'album, appunto" Village of the Pharoahs" caratterizzata da un' ininterrotta melodia in cui svetta non solo il sax soprano di Sanders, ma anche un contorno di strumenti percussivi e non africani ( shakuhachi, sakara, murdinom) tanto ammalianti da indurmi a credere ( forza della suggestione..) di trovarmi nel bel mezzo della savana africana. Qui disperso, immagino di raggiungere un villaggio di qualche tribù locale che, credendo di farmi un grande onore, mi introduce allo stregone della comunità. Tale somma autorità vuole catechizzarmi ai riti ivi vigenti e già che c'è intende farmi congiungere sessualmente con una delle sue figlie ( non prive di un certo fascino). Tutto al ritmo della melodia intonata da Pharoah Sanders and his orchestra. Come opporre resistenza a questo flusso sonoro che mi cagiona uno stato di trance, a metà strada fra il mondo onirico e la condizione psichedelica?

Il passaggio alle composizioni del lato B rappresenta uno stecco netto, ma per quanto il sound sia meno sfrenato come nella prima parte dell'opera, la potenza evocativa delle composizioni non è da meno. " Mansion worlds" è sorretto da un flusso pianistico di matrice ellingtoniana che dà manforte agli accordi del sax di Sanders, in un quadro musicale piu classico e sobrio, ma stimolante nell'immaginare uno scenario metropolitano efficentista alquanto lontano dalla dimensione selvaggia della savana africana. Segue l' incedere sognante di un flauto ammaliante nel brano " Memories of Lee Morgan", quasi si trattasse dell' irrompere della bella stagione primaverile, con l'immancabile risveglio della natura dopo il lungo letargo invernale. Per chiudere, infine, con un divertissement free dal titolo "Went like it came" , ove i musicisti canticchiano allegramente frasi sconnesse e jammano sulle note distorte del sax di Pharoah.

Un'onda, quindi, di sensazioni ed immaginazioni incredibili mi prendono tutte le volte che, seduto in poltrona, ascolto " Village of the Pharoahs". Sarà anche, a parere di alcuni critici, un'opera minore dell'autore, ma se un tale album risulta avvolgente la ragione sta nella magia insita nelle note sprigionate lungo i solchi del vinile, tanto da provare la sensazione di trovarmi nel continente africano senza bisogno di andarci di persona, ma limitandomi ad ascoltare attentamente un così magico tappeto sonoro. E se questa non è la dimostrazione della genialità di un musicista, beh allora come definire "genio" un musicista? E chissà che poi, un bel giorno, accada che qualche estimatore degli attuali rappers provi quelle stesse sensazioni sopra descritte durante l'ascolto di un brano di Fedez e affini.

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