Avvertenza per i lettori: tutto ciò che verrà trattato in questa pagina sarà eccessivo, pletorico e sovrabbondante.

Esattamente come un monumentale lavoro di 73 canzoni contenute in quattro CD (uno solo dei quali riproduce un album originale), con 45 artisti coinvolti e suddivisi in 17 diverse ragioni sociali, un esercito di 230 musicisti tra turnisti abituali e occasionali.

Esattamente come il personaggio in questione. Uno spocchioso, arrogante, megalomane, neurolabile, dispotico e violento soggetto, col vizio di tirare fuori un revolver di grosso calibro per risolvere le questioni - per conferma, chiedere a Leonard Cohen - e che per questa sua inclinazione ha passato pure i suoi bei guai giudiziari. Uno che a 18 anni incise il suo primo ed unico disco e non intascò nulla, ma che poco dopo aveva già fondato una sua propria etichetta e, scrivendo e producendo brani per altri, a 21 anni aveva guadagnato il primo di una lunga serie di milioni di dollari. Uno che diede lustro e successo ad una professione prima d'allora ritenuta impiegatizia o poco più. Uno che rappresentò il primo e unico caso nella storia della musica - non solo di quella giovane - in cui il produttore divenne assai più importante degli artisti, creando quello che a buon diritto poté chiamarsi un inconfondibile "marchio di fabbrica". Uno che a 26 anni (quest'anno ne compirà 70...), sdegnato dai primi insuccessi, chiuse per sempre quella fabbrica, tornando poi occasionalmente a interagire ed in modo assai discusso nelle vicende rock, ma questa è un'altra storia. E poi, praticamente, il silenzio.

Ci vuole uno sforzo d'immaginazione per comprendere bene chi fu e che cosa rappresentò Philip Harvey Spector. Ovvero, l'età dell'innocenza. Del rock e di chi lo ascoltava. Tant'è che una delle definizioni più azzeccate per descriverlo è quella che campeggia nel volumetto d'accompagnamento al box set di cui si tratta e che possiamo considerare come il definitivo riordino della sua opera: "America's first teen-age tycoon", il magnate dei teen-ager. Lui che, abbiamo detto, di quegli adolescenti poteva giusto considerarsi un fratello di poco maggiore. Fu il Bill Gates o lo Steve Jobs - scegliete voi...- dei primi anni Sessanta, per quella generazione di giovanissimi americani che la generazione di giovanissimi italiani cui il sottoscritto apparteneva poteva solo anni dopo idolatrare per mezzo di American Graffiti o, più divulgativamente, di Happy Days. E' in quel contesto felice e spensierato che dobbiamo calarci, tra le feste dell'High School, i drive-in che odorano di fritto, le Buick e le Pontiac decappottabili lunghe sei metri, le code di cavallo, i calzini colorati e i mocassini dei sedicenni di allora. Erano quei ragazzini e quelle ragazzine ad infilare uno via l'altro i dimes nei juke-box, che in heavy rotation li rendevano felici al suono delle canzoni di Crystals, Ronettes, Darlene Love, Gene Pitney, Righteous Brothers, Modern Folk Quartet, Ike & Tina Turner e altri. Miniature pop che parlavano di dichiarazioni d'amore, di primi baci e anche qualcosa di più, di relazioni infelici contrastate dai genitori, di teneri teppistelli della porta accanto, di giovani fidanzati che devono partire per fare il soldato. E con questi semplici ma universali argomenti traghettavano il doo-woop nel pop leggero e da questo nel soul dell'Età dell'Oro, divenendo la colonna sonora dell'esistenza di una generazione "bubble-gum". Tutta avvolta dal "muro del suono" di Phil Spector. In realtà erano tutte canzoni di Phil Spector.

Oltre che l'immaginazione, ci vorrebbero anche orecchie vergini per apprezzare appieno. So che è difficile azzerare la nostra mente da tutto l'hard-rock, il nu-soul, il punk, la new e no-wave, l'electrobeat, l'hip-hop, il grunge e il math-rock fin qui penetratovi. Musicalmente, dovremmo poter possedere le orecchie vergini - e non solo...- di quei teenagers. Sentiremmo allora come una canzoncina leggera leggera, trattata dall'omino dietro la consolle perennemente in occhiali da sole, diventava una piccola sinfonia di due minuti e mezzo, con un suono che senza neanche utilizzare i trucchi della stereofonia si stratificava poco a poco, legando in una trama finissima voci soliste e cori, archi ed ottoni di somma eleganza, ritmi e percussioni di una semplicità disarmante ma anche di funzionalità assoluta (si pensi al basilare "tum, tu-tum-cha" del favoloso Hal Blaine che introduce Be my baby.) Un effetto allo stesso tempo dolce ed imponente, ottenuto raddoppiando se non addirittura triplicando l'impiego di batteria e percussioni, con l'uso dei cori in sottofondo che diventano strumenti aggiuntivi, rifinendo fino alla perfezione quasi maniacale ogni singolo incastro (qui pare ne sappiano qualcosa i Ramones, costretti durante le sedute di registrazione di "End of the century" a lavorare per oltre tredici ore su un solo accordo). Questo il metodo-Spector, un metodo che, fossimo nella classica, partendo da Mozart giungerebbe a Wagner, riuscendo nel miracolo di coniugare in modo perfetto così diverse sensibilità. Un metodo che, tocca ripetere, ha reso ogni singola canzone da lui prodotta (qualcuna la aveva pure scritta) una canzone di Phil Spector.

Una volta che le nostre orecchie si saranno pertanto mondate, la festa potrà allora cominciare. E sarà una festa senza fine, a base di brani ultrafamosi che ascolteremo finalmente provenire da uno stereo e non da un short pubblicitario o mentre guardate un film. Inutile citare un titolo piuttosto che un altro, perché è inutile elencare le canzoni di un juke-box. Addirittura, avremo come mancia quello che Brian Wilson definì il più bell'album di Natale della storia. Datato 1963 e interpretato come pare ovvio dagli artisti della sua scuderia, "A Christmas gift for you" è un affare di 12 cover di carole natalizie più un bellissimo brano originale, che tutte insieme racchiudono la quintessenza del pop secondo Spector. Manco a dirlo, pure questi arcinoti standards divengono nelle sue mani materia nuova e personalissima. Un capolavoro che ebbe il solo torto di uscire lo stesso giorno in cui venne ammazzato John F. Kennedy.

Quant'è bella giovinezza, che si fugge tuttavia...

 

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