L'eclettica genialità e l'affascinante verve provocativo-alternativa di Pasolini lo hanno condotto, come è alquanto risaputo, non solo a tante, troppe sventure giudiziarie (colmate persino post-mortem con l'agghiacciante Salò), non unicamente al mesto disdegno della schizzinosa aristo-borghesia radical chic della Prima Repubblica, ma soprattutto alla sua tragica scomparsa. Figura di innegabile talento nel raccontare la "vera" realtà di una società che preferiva nutrirsi del loto e dei narcotici dell'ipocrisia nazionale, artista in grado di fondere egregiamente passato, presente, utopia e distopia in un grande unicuum di materialismo e di spiritualità del tutto umane (e dunque non meramente iperuraniche e deistiche), la leggenda pasoliniana - tengo a sottolineare- sarebbe sprecata persino nella becera condizione valoriale-morale di questi tempi di contraddizioni e sollazzi negati e di tabù pseudo cristiano-conservatori perennemente ribaditi da gerarchie di altolocati che fanno dei vizi il loro lifestyle. Vizi, peraltro, patrimonio immanente di generazioni di umani e umanoidi, celati nell'agorà ed esasperati nelle alcove, simbolo di una naturale indole all'affezione corporea scomoda agli ideologi della trascendentale purezza e della celeste castità.

Con la "Trilogia della Vita" Pasolini si è ritirato sino agli inizi del secondo millennio per ricercare la normale tendenza al carnale e alla "sporcizia", compiendo ciò con il prezioso ausilio di illustri letterati e autori "anticonformisti". Con il Decameron boccaccesco e i Racconti di Canterbury di Chaucer aveva focalizzato la ricerca sul contesto italiano ed europeo medievali, dando voce alla "plebaglia" imperfetta, tuttavia spiritosa e comica, ai giovani scapestrati, ai vecchi allupati e alle femmes provocanti e ammalianti. Qui l'espressione del carnale e dell'impuro cozzava intenzionalmente con l'integralismo del rigore religioso e ideologico imposto dall'alto e creava scenette spassose, erotico-comicheggianti, quadretti in cui il volgo bruto e ignorante sapeva divertirsi e gestire con singolare disinvoltura l'affar suo, anche senza troppi quattrini nel borsello. Ed è così che le mogli costrette alla reclusione forzata nel gineceo riescono a intrecciare triangoli no e tresche amorose eludendo la sorveglianza del marito, del vicinato "guardone" e delle comari spione, le ragazzine adescano sbarbatelli e li accolgono e braccia (e gambe) aperte, la gioventù universitaria consuma una particolare vendetta nei confronti di profittatori e furbetti accoppiandosi con le relative consorti e figlie e così via, in un delirio di porno-intelligenza maliziosissima e gustosissima.

Giunto al terzo ed ultimo capitolo della "Trilogia della Vita", Pasolini propone qualcosa di più che il format comicoerotico sperimentato nel contesto europeo. Il Fiore delle Mille e una Notte, il penultimo capolavoro prima dello shock di Salò, si presenta difatti come un'opera ben più rischiosa e complessa dei precedenti, una sorta di "avanguardia" nel neonato contesto filmico decamerotico capace di espandersi (non solo in senso figurato) fuori dalle mura del Vecchio Continente, di esplorare un ulteriore curriculum di tematiche e di aggiungere nel calderone della triologia una vasta gamma di aspetti, riflessioni e umori. In primis, la versione pasoliniana della saga quattrocentesca delle Mille e una Notte crea un intricato intreccio di storie, narrazioni e racconti più vasto e reticolato del Decameron e dei Racconti di Canterbury, intreccio nel quale i protagonisti di un episodio introducono l'altro, lo circoscrivono a mo' di flashback, e giungono persino a terminare l'intera narrazione; Il Fiore, poi, sembra meno intenzionato a reiterare il mood giullaresco e soft-pornografico delle trattazioni europee e si inoltra invece nell'esoterismo arabo-orientale, nel filone romantico-sentimentale e persino nel kolossal storico-mitologico. Colpisce altresì la moltidudine di location, città e luoghi catturati dall'ineffabile cinepresa: oltre al mondo arabo e alle sue perle (fra le quali la capitale yemenita di San'aa che proprio per l'intercessione illuminante di Pasolini è stata inserita nei Patrimoni dell'Umanità Unesco), il regista si è spinto sino al Nepal e all'estremo Oriente, espandendo in lungo e in largo un vastissimo ventaglio geografico culturale assente nel resto della Trilogia, quasi a rispecchiare profonde velleità cosmopolite e multiculturali.

Il Fiore delle Mille e una Notte spalanca una reticolata serie di racconti e storie gestite e incastrate tuttavia con impeccabile ordine strutturale. Per la complessità dell'opera non è necessario analizzare i capitoli uno per uno: fra i più significativi va ricordata l'avventura della schiava-regina Zumurrud e del padrone-giovanotto Nur ed-Din (cornice peraltro di tutto il film), la tragicommedia di Aziz - interpetato da un romanesco e poco arabeggiante Nino Davoli, contrapposizione comunque squisita e spensierata - evirato dall'amante Budur a causa della sua fatale infedeltà nei confronti della rassegnata promessa sposa Aziza e le storie di Shahzamàn e di Yunan.

La composizione e i significati profusi dal lavoro pasoliniano mostrano un impeccabile avanguardismo filosofico-morale e d'immagine. L'accentuato e quasi esasperato nudismo dei protagonisti (da Aziz a Nur ed-Din, passando per le narrazioni minori) ivi si trasforma in un gioco voyeuristico quasi trascendentale, una sorta di libertinismo-libertarismo proto-universale e iper-umano che rifugge dalla vergogna e dal pudore ipocrita della società; l'Arabia e i suoi misteri vengono dunque inquadrati da Pasolini come la culla dell'emancipazione dalle convenzioni e dai regolamenti, un mondo in cui la vendetta, la ripicca, la pena capitale e il castigo giungono legalmente, prescindendo dalla bieca giustizia della finta legge moralistica regina dell'Occidente.

Benché più "spinto" e "scabroso" delle trasposizioni boccaccesche e chauceriane, Il Fiore delle Mille e Una Notte ricevette persino l'ammirazione dei giudici che dovevano assecondare o meno le inevitabili censure e proteste e questo non fu ben visto dallo stesso Pasolini, il quale sembrava aver collegato la validità del suo estro creativo al rifiuto conformista e borghese delle autorità giudiziarie. Ciononostante l'opera è annoverabile d'ufficio fra le sperimentazioni cinematografiche meglio riuscite dello scorso secolo, il penultimo soffio vitale di un uomo la cui grandezza getterebbe in un nanosecondo nel baratro la finta intellighenzia moralistica dello showbiz italico odierno.

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