“Searching, you're searching
In images and memories
See these hands are empty
Slowly moving in the air”

Alla fine dell’estate, prima di ripartire verso casa, dopo pranzo, mio padre ci metteva a letto. Doveva affrontare un lungo viaggio, riportarci a casa. Le tapparelle non erano completamente abbassate e filtravano la luce di settembre bucherellata a intervalli regolari di luce e di ombra sull’intonaco della camera. Con la valigia chiusa a terra, i nostri sogni disordinati si acquietavano su quella partitura di musica elettronica e vento di salsedine, miagolii di gatti nel cortile impegnati a rovesciare i bidoni con gli avanzi del ristorante.

Eravamo stretti in un unico letto e l’immaginazione viaggiava dentro quel sonno che non era il sonno della notte, ma nemmeno il sonno del giorno. Era il portale assopito dell’autunno, la nota finale prima del risveglio, quando tutta questa eternità di riposo durava solamente un’ora e la stagione, come tutta la vita, improvvisamente subiva la sua metamorfosi. A quel punto, era ora di alzarsi e salutare la stanza di nuovo sconosciuta, misteriosa, perfettamente ripulita e sistemata per la stagione successiva.

Poco più tardi, nello stesso anno, nell’ottobre del 1987, la leggendaria etichetta 4AD (Cocteau Twin, This Mortal Coil) licenziava una delle sue opere di maggiore ispirazione, in perfetta sintonia con le atmosfere autunnali, con il rifugio della fine dell’estate introiettata nel buio della memoria per un autunno a venire. Un autunno rigido, con i sintomi di una bronchite dovuti a una guerra sempre più fredda, con i bisbigli incomprensibili dei miei genitori in salotto e i volti cupi delle spie sovietiche sugli schermi di Gorky Park.

Mentre avanzavano le giornate, tra noia e tensioni nucleari, Peter Nooten era già un promettente musicista olandese non troppo convinto né del suo strumento (all’epoca, batteria, poi basso, infine tastiere), né del destino musicale dell’estetica new wave intrapresa con gli ottimi Clan of Xymox. C’erano troppi ammiccamenti, troppi sguardi magnetici, mascara, sorrisi cupi e compromessi con le classifiche musicali. Non era più tempo per la mescolanza dark, pop rock elettronica mid-eighties che imperversava in Europa fino a quel momento. Nooten alla fine si era stancato anche di sé stesso, figuriamoci delle mode.

Così avvenne l’incontro della vita, perlomeno quello che ci ha regalato il suo disco di maggior rilievo, “Sleeps with the fishes”, appunto con l’immarcescibile 4AD e soprattutto con Michael Brook, il geniale chitarrista inventore canadese, l’unico in grado di elevare all’ennesima potenza il senso melodico per la nostalgia di Nooten ed effettuare un vero e proprio upgrade con arrangiamenti minimali e registrazioni cristalline tuttora onestamente insuperabili per gusto e tecnica sopraffina grazie anche alla lezione e alla collaborazione con Brian Eno e Daniel Lanois.

La forma canzone si estingue e qui prende il posto di strumentali appena abbozzati, liriche che commuovono grazie alla volontà dell’autore di comunicare un’esperienza autentica, un vissuto fragile in quel decennio ormai terminale di tracotanza post-music e narcisismo televisivo.

Dobbiamo ringraziare inoltre il minimalismo e la grazia con cui, Nooten e Brooke, sono stati in grado di creare un filo di senso per chi ascolta, spesso immerso in un mare di apparente cupa disperazione in cui le memorie sembrano sciogliersi e ricomporsi in una sorta di abisso misurato, in cui però non c’è nessuna sensazione di abbandono, come invece vorrebbero certe estetiche dark ambient decisamente più aggressive derivanti dallo stesso filone darkwave da cui traggono origine.

Questa stessa grazia è dovuta anche a movimenti vocali con una declamazione leggera e notturna, in grado di lasciare spazio ad accordi di piano spezzati e progressioni inconsuete per quegli anni, innovative, come ammetteranno i moltissimi epigoni che ancora oggi parlano di Nooten e Brook come di due compositori pioneristici della musica e non solo d’atmosfera.

In breve, questo lavoro suona come un disco fatto l’anno scorso, però privato di quelle squallide armonie programmate al computer che da qualche tempo oscurano la nostra intelligenza emotiva di ascoltatori con l’artificiosità logica e fredda della drone-music contemporanea.

Dobbiamo invece pensare che questa composizione così efficace, nata dalla pura creatività artigianale e professionale di un sound engineer, certamente anche dall’aiuto di Eno e da scelte accurate a livello di suoni, si è avvalsa solamente della rarefazione di un Synth Yamaha DX7 e della collaborazione di strumentisti d’orchestra tradizionali in un lavoro di squadra decisamente ben congegnato che ha valorizzato la poetica delicatissima del lavoro di Nooten.

Probabilmente dobbiamo rovesciare il ragionamento. Oggi certi album, soprattutto d’ambiente, ma non solo, suonano come questo disco semplicemente perché si sono limitati, molti anni dopo e con altra tecnologia, ad imitarlo molto bene senza però la stessa meravigliosa attitudine artistica che in “Sleeps with the fishes” di Nooten e Brooke si è conservata intatta come uno scrigno prezioso, una vera e propria capsula del tempo della memoria, con il loro suono rarefatto ed evocativo in grado di provocare le stesse risonanze emotive ancora oggi dopo innumerevoli ascolti.

Carico i commenti...  con calma