Il ricordo è sbiadito, ma è pur sempre un ricordo. 10 marzo 2001, questo me lo ricordo, perché, come al solito e per chi, come me vive a Roma, ricorda benissimo la moria di concerti che in quel periodo dominava la capitale: anche per vedere AlBano, bisognava prendere la macchina e affrontare un “viaggio”. La destinazione del mio viaggio, quel giorno, era Milano, esattamente il Palalido di Milano. Il discorso era che la signorina Polly Jean Harvey si esibiva solo quella sera, solo a quell’ora, solo quella volta in Italia, ed io non potevo proprio mancare. La mia curiosità nei confronti di quella ragazza nacque dai tempi di “Rid of Me”: disco acerbo, duro, per niente delicato seppure virginale in alcune sfumature, se vogliamo; per tutto questo un disco particolare, indimenticabile, insostituibile. All’epoca del concerto era da poco uscito il suo disco “Stories From the City, Stories From the Sea”, molto più raffinato, più “americano” di “Rid of Me” e “To Bring You My Love”.

Aprono la serata nientepopodimeno che i Giant Sand, che ci regalano una buona oretta (forse meno…) di musica e balliamo divertiti sulle note anche di cover celebri, come “Out On The Weekend” del buon vecchio Neil Young. L’aria comincia a farsi densa di fumo, tanto che, quando i Giant Sand se ne vanno, qualcuno dal palco ci chiede espressamente come favore personale a PJ Harvey, di non fumare. Figuriamoci… era come non averlo chiesto!Comunque, un po’ prima delle 21 e 30 le luci si spengono e PJ, senza permettersi entrate scenografiche e regali, arriva sul palco insieme agli altri musicisti. La figura esile, inguainata in un vestito rosso fuoco che lascia vedere le sue gambe nude su altissimi tacchi a spillo, si muove sinuosa su un palco scarno, nudo, rauco, come la sua voce. Polly è magrissima, e quando imbraccia la sua chitarra, lo sembra ancora di più. La sua pelle bianca, fa risaltare un trucco violento, elettrico, in totale contrasto con il suo viso diafano, eppure le dona.

La scaletta prevede una miscela di brani vecchi e nuovi, ma l’intensità non cambia: inconfondibile lo è sempre, quella voce che oscilla tra il ferroso e il soave nell’arco di un secondo. Quando attacca “To Bring You My Love”, c’ è il boato della folla. Ma lei sta lì, non fa niente di quello che pensavo avrebbe fatto, ancheggia, si muove sensuale, suona le tamburelle con le unghia laccate… . Vabbeh. Non so… sembra più “donna”. Mentre la guardo, avverto in lei ricercatezza, raffinatezza, non sembra più la ragazza nervosa e tetra del video “Man Size”, seduta su uno sgabello, coi capelli legati in un semplice codino e struccata. Mi piace anche così, ma… avverto un certo distacco. Sarà che ha la laringite! Fatto sta che dopo un solo bis (“Down by the Water”), saluta scusandosi per la forma non proprio perfetta della voce, e se ne va.

 Il concerto è durato un’ora, o poco più. Menomale che, pochi anni dopo, con l’ uscita di “Uh Huh Her”, ho avuto la fortuna di rivederla live, (e questa volta a Roma!), almeno quel senso di incompiutezza che mi era rimasto sono riuscita a scacciarlo, un concerto che mi è sembrato un ritorno alle origini, sia come sonorità, sia come stile… ma magari ne parliamo un’altra volta, và.

Ps: è durato poco pure quello!

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