Su un parquet s'appoggiano polverosi tanti di quei dischi, vinili da far paura, tant'è che molti gruppi rimangono lì intrappolati e si perdono in un oblio imprecisato, in attesa che qualcuno li possa riscoprire, magari per dedicargli la giusta attenzione, dandogli il giusto palcoscenico che meritano. Quante volte si sente di artisti e lavori (ri)scoperti a posteriori e che avrebbero meritato altra sorte quando uscirono freschi, freschi, dalle mani di etichette discografiche e musicisti? Fin troppe. È quello che deve aver pensato Jacob Bannon quando nel 2012 decide di inchiostrare per la sua Deathwish una band che dalla sparuta Peoria in Illinois prima e Denver poi, a cavallo fra anni '90 e anni '00, ha rilasciato una catena ininterrotta di lavori di un certo peso, in quel miscuglio indefinito che vuol dire tutto e nulla denominato post-hardcore. Radici musicali che spaziano un po' ovunque, ma con la ferrea convinzione lo-fi e underground sempre e comunque dominante. Il nome di questo gruppo è Planes Mistaken for Stars e il full length che quest'estate risorgerà tirato a lucido con nuova produzione alle spalle è "Mercy", ultimo sospiro prima del breakup avvenuto due anni dopo questa uscita, precisamente nel 2008. Nel frattempo una nicchia paludosa ha inghiottito uno dei più validi esempi recenti di come saper trasmetter un'atmosfera disperatamente abbandonata a se stessa, senza apparir eccessivamente catartici, tuttaltro. Qui dentro il pessimismo s'abbatte violentemente e non conosce prigionieri.

Una voce rauca sciupata dal tempo ed esasperata, quasi come se stesse costantemente esalando l'ultimo respiro dopo una faticosa battaglia è il biglietto da visita di Gared O'Donnell, che poi pensa bene di infierire più che volentieri sulle corde non solo vocali, ma anche di una chitarra che, incrociando quella del compare Chuck French, ruggisce senza retrocedere di un centimetro, alla ricercar di lasciar il segno indelebile, in una vita costantemente martellata da illusioni in cui trovar il giusto equilibrio è una missione praticamente abortita sul nascere, se non suicida. Gared non è uno di quei ragazzini ventenni che butta fuori tutto il risentimento possibile, il suo e quello dei Planes Mistaken for Stars è un caos metodico, eppur così spontaneo e costruito senza l'intento di risultare indefinito. C'è una sofferenza melodica ben diffusa, una stanchezza che trascinerebbe a fondo pure il vecchierel canuto e bianco di cui si parlava un paio di secoli fa. Una ricerca minuziosa nelle scelte con cui fondere al meglio l'anima tormentata e una rabbia che ha il sapore della rassegnazione più amara, sono le armi vincenti di "Mercy" in pochi giri di parole. Non c'è alcuna grazia, ci sono solo fallimenti e tradimenti che vengono a galla e ributtati sinistramente nell'inferno personale racchiuso in brani affilati, spigolosi, così disorientanti e malsani da far rimaner incantati nel cupo scenario che viene costruito passo per passo, con delle carte in tavola che cambiano repentinamente, rigettando il rimaner su binari lineari. Tutto va a fuoco e i Planes Mistaken for Stars bruciano con ciò che loro stessi hanno creato.

Tremolante Gared alimenta le sue angoscie. Il resto del gruppo lo segue a ruota con il pesante ed abrasivo riverbero del basso, che tuona deciso nel temporale scatenato dagli intrecci chitarristici che pian piano distorcono gli arpeggi lanciati inizialmente come un'ancora di salvataggio, ma che rapidamente si rivelano essere delle armi a doppio taglio, capaci di mutar forma e ribadire l'allarmante senso d'urgenza che la musica dei Planes Mistaken for Stars porta nel suo scheletro. Un'eccezione avverrà solo nella conclusiva "Penitence" dove nella calma surreale, placatasi una batteria che più di una volta colpisce senza pietà, arriva la più cruda consapevolezza d'aver intrapreso un cammino che porterà a un punto di non ritorno. Questo era "Mercy", nulla più che quaranta minuti scarsi di un violento incidere capace di trovare nell'arida disillusione la sua più potente fonte d'energia. Un disco, un gruppo che, ammirando la continua evoluzione avuta dal primo "Fuck with Fire", merita questa rinascita, per la quale tocca ancora una volta ringraziare Bannon & Co. Quindi let us sing one last time, one last goodnight.

Elenco tracce e video

01   One Fucked Pony (04:11)

02   Crooked Mile (03:03)

03   Widow: A Love Song (02:06)

04   Keep Your Teeth (04:47)

05   To Spit a Sparrow (02:50)

06   Never Felt Prettier (02:46)

07   Killed by Killers Who Kill Each Other (03:26)

08   Little Death (03:22)

09   Church Date (03:44)

10   Mercy (04:34)

11   Penitence (03:35)

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