Chains of Iron.
Before Sunrise. 1982 Long Beach


Desio di giugno, intensi profumi di lavanda nel fragore del solstizio,

corpi al sole per scolpire la sabbia e lifting di elettronica da spiaggia.

Dalla caverna dei suoi rayban, all’improvviso una palla schizzata da un’onda rotolava lungo la linea del sole,

la sua attenzione violentata e la testa nuovamente sedotta da quel sound altrove, da quella elettricità senza fili.

Lei era così affascinante, spietatamente consapevole,
sapeva quando scomparire e nascondersi sottoluna.
Non resta che ridere, del tempo che inganna, del sole che fa capolino, del suo andamento pop, smarrirsi senza incontrarsi.
Del resto Lei potrebbe dire e fare ogni cosa e noi siamo in giostra, avant l’automne .

I see
See a girl beside her dreams
Romantic dreams

Quasi una impresa entrare nei sogni altrui, se sovente non riusciamo a formare quell’argilla colorata dai nostri.
E le stelle più grandi, sono quelle più luminose o semplicemente quelle più vicine.
Tra quelle ondate oblique della New Wave, che inondarono i 5 continenti
i Polyrock come altre gemme, come gli stessi e diversi Chrome, arrivarono After The Sunset, dopo che le luci della ribalta avevano già incensato le maestranze.
E probabilmente c’era poco spazio per quella luminescenza di altri mondi, per quel sound senza volti, per quella musica senza marketing, quei look da bouquiniste senza Senna.

Forse sarebbe bastato rilassare il respiro e la nevrosi di quei battiti, per un attimo
socchiuse le palpebre ascoltare “ Your Dragging Feet “, pervasi da quella coralità
dentro le nostre mure di pietra, essere graffiati da quei singhiozzi e da quei riff acuminati, dentro le nostre mura di pietra…

Parrebbe possibile, Before Midnight, in quella spiaggia solitaria
scorgere nella penombra un triangolo amoroso
tra Philip Glass, David Byrne e Julie Delpy.
Musicati in quel crepuscolo
da una band talmente low profile da risultare invisibile,
un sound senza forme e senza volti,
una maschera veneziana che cela un amore consumato nell’ombra,
insabbiato di trascendenza.
Lievi vibrazioni di synth si snodano con arpeggi di chitarra apollinei ,
beccati nell’inceder della notte da arrangiamenti spastici alla frontiera di Akron.

L’ardore e’ una strana bestia, prende piede subito dopo la scomparsa dell’acne,
neanche il tempo di strofinarsi gli occhi.

Quella rosa sul davanzale che all’improvviso diventava strumento de bello e conquista,
da quel sound pantagruelico implodeva questo dancefloor del post rock, per la danza suicida dei timidi e delle sorelle Lisbon.
Cantico di quel giovane, in blazer ed occhiali scuri che aveva appena bisbigliato al DJ di far girare sul piatto Philip Glass.
Memoria di quel waver perso nelle onde di quella estate cosi’ torrida e criminale,
stremato da quelle notti e da quegli angeli naif e sterminatori.

Mi ricordo di non avere mai danzato nessuna di queste canzoni.
Mi ricordo di avere sempre sognato di danzarle tutte stremato fino all’alba.

Prigionieri di quel sogno,
nell’estasi di un desiderio cristallizzato riverberi della prima New Wave, con tutto quel polline e quel Lexicon of Love snaturato , denaturato e privato dalla ricchezza di quegli archi così imperiosi; ma anche per questi ragazzi della Grande Mela il postino si dimenticava di passare a San Valentino e l’ombrello non si apriva con lo scoppiar della bufera.

"Working on my Love" e’ il trattato esistenziale dei Polyrock
il voltare pagina dopo il perfetto e vittorioso equinozio di quella Love Song
l’addio alla metafisica celeste e l’abbandono alla legge dei corpi ed alla frenesia dell’estate,
il distacco gelido dal mentore fidato, per riprendere possesso di quel ballo perduto,
quel saggio di danza disinvolto davanti al proprio specchio.

L’esercizio sulle proprie brame e passioni e quella necessità di non essere succubi
di quello stile, sebbene perfetto.

L’avvio e’ sulle note di una elettronica primordiale, tra i primi Depeche e Soft Cell, quella voce cosi’ incredibilmente eterea e sognante…
e quella drum machine cosi’ossessiva e seducente.
Dopo quella monumentale Love Song e quella perfezione pop raggiunta,
si doveva ripartire dalle proprie incertezze per una nuova Odissea.

"Chain of Irons" e’ l’essenza del mescal che traspira da tutto questo scritto
la trasversale incertezza di non credere più alla fiaba accomodante
spezzare quella catena e fuggire altrove e comunque lontano da
è il calore definitivo che infiamma quel ghiaccio nelle vene,
che dissolve quella dittatura senza lacrime.

"Broken China" ripercorre quel ritmo singhiozzante della “Gut Feeling” dei Devo
dopo una notte insonne con quei fantasmi tentatori
ma quel treno senza passeggeri non si eclisserà in quel fragore
ma decelererà e deraglierà verso penisole sconosciute
semplicemente oltre e nella direzione di una bellezza più intensa
fino a disintegrarsi e dissolversi nell’enigma di un significato più profondo
in quella dolce sopraffazione.

Sono trascorsi oltre 35 anni da quando usci questo ”Above the fruited plain', Ep composto da cinque gemme, orfano sia della produzione di P.Glass che dell’importante contributo e del violino di Tommy Robertson, ma ascoltando ancora quel diamante di "Indian Song" mi sembra di ascoltare ancora i migliori Mogwai , da quel sound fantasma e quella voce senza parole di Madame Oblasney.
Basta vedere di notte, dal punto più alto della stratosfera, quante lucciole cadono dal cielo.

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