Pensavamo seriamente di aver definitivamente perso i Porcupine Tree dopo “The Incident”, c’erano diversi indizi a sostegno. Steven Wilson nell’ultimo decennio si è buttato a capofitto sulla carriera solista, sfornando dischi grandiosi e parlando del Porcospino sempre in maniera molto vaga e dubbiosa. Prima le voci di un probabile nuovo album nel 2012/13, poi si è parlato di pausa a tempo indeterminato, poi addirittura di band che non esiste più. Le speranze le avevo perse soprattutto vedendo una buona fetta di repertorio del Porcospino inserito nelle scalette del tour di “To the Bone”, e quindi nel DVD “Home Invasion” registrato alla Royal Albert Hall; ho pensato “ok, se si mette a suonare un sacco di brani della sua storica band nel suo tour solista vuol dire che allora è finita davvero, se prende quei brani e li fa suoi vuol dire che non li proporrà più con la sua band” (per fare un paragone commerciale è quello che ha fatto Max Pezzali con le canzoni degli 883). A ciò va ad aggiungersi l’arruolamento di Gavin Harrison nei Pineapple Thief, che sa tanto di giocatore svincolato preso a parametro zero. Poi la dichiarazione che fa alzare le orecchie a tutti, “i Porcupine Tree potrebbero tornare da un momento all’altro” e poco dopo… l’annuncio social: i Porcupine Tree torneranno con un nuovo album a giugno. Lo fanno però con una formazione a tre, Wilson-Barbieri-Harrison, il bassista Colin Edwin viene tenuto misteriosamente fuori (il mistero verrà poi svelato dallo stesso Wilson), con Wilson che suona personalmente tutte le parti di basso.

Cosa dobbiamo aspettarci da questo “Closure/Continuation”? Se si è fan del Porcospino e si ama in particolare la seconda parte di carriera del gruppo si può stare tranquilli. Permane quell’impostazione post-prog e alternative elettroacustica, con i suoni a tratti molto delicati e a tratti più spigolosi ma mai veramente limpidi, i Porcospini non hanno mai amato i suoni brillanti, glitterati o peggio zuccherosi; in generale vi è ancora quel volersi smarcare dalle classiche composizioni symphonic prog e neo-prog. Continuano a non esserci (o quasi) sezioni strumentali di rilievo o virtuosismi marcati nonostante una solida tecnica di base; l’eccezione in tal senso è rappresentata sempre dal supremo batterista Gavin Harrison, l’elemento tecnico della band e l’unico che si permette di sfoderare qualche virtuosismo ma senza mai snaturare l’approccio piuttosto composto dei brani. E anche stavolta mancano le classiche tastiere sgargianti in favore dell’effettistica accuratissima e appena udibile di Richard Barbieri (per quanto mi riguarda uno degli elementi che più mi ha avvicinato a loro). Tutto sembra abbastanza nella norma e non c’è niente di strano, in fondo si tratta di materiale anche piuttosto datato, composto a più riprese già a partire dal 2011.

Tuttavia anche chi si aspettava un rinnovamento e qualche idea fresca non ne rimarrà deluso. Qualche elemento di differenza con i dischi che hanno segnato gli anni 2000 del gruppo c’è, anche se probabilmente non si individua subito. Ad esempio si può notare una significativa riduzione di quegli elementi hard e metal che avevano segnato gli ultimi 3-4 dischi, che avevano fatto accostare la band all’hard prog o addirittura al progressive metal. “Rats Return” e “Herd Culling” sono ancora piuttosto dure (la seconda è decisamente metal), il resto decisamente meno.

Ma questa non è la differenza più significativa, sicuramente non quanto le linee di basso. Steven Wilson durante una jam con Gavin Harrison in cui poteva disporre di un basso ma non di una chitarra si è reso conto di quanto potesse dare come bassista, in più la totale mancanza di contatti e rapporti con il bassista Colin Edwin gli ha fatto pensare che lui stesso potesse essere il bassista ideale per il nuovo album. Beh, ha avuto ragione, abituati allo stile ipnotico e appena udibile di Edwin con Wilson bassista si hanno delle innovazioni sotto quest’aspetto, Wilson suona in maniera più metallica, energica e variegata, non credo che con Edwin avremmo avuto i primi minuti di “Harridan”, quella specie di assolo in “Dignity” o il continuo saliscendi di “Chimera’s Wreck”; è proprio il caso del sostituto che fa meglio del titolare, è successo all’incirca come nella difesa del Milan, con il terzino Kalulu che viene spostato centrale e fa meglio del titolare Kjær fregandogli il posto.

Sorprese mica da ridere anche sul versante tastiere/synth. Lo stile ermetico di Barbieri come detto è sostanzialmente riconfermato ma alcune chicche insolite e decisamente meno ermetiche ci sono eccome: i caldi loop elettronici in “Harridan” non sono roba di tutti i giorni, ma non lo sono nemmeno gli effetti in stile calcolatore elettronico di “Herd Culling”; inutile dire che nessuno si sarebbe aspettato un brano come “Walk the Plank”, che è un vero e proprio tuffo nell’elettronica, quella proprio più sperimentale e coraggiosa, con suoni che schizzano da tutte le parti ma che rimangono tutto sommato misteriosi ed abissali; ma non mi sarei aspettato nemmeno i passaggi di synth dolce e melodico al centro di “Dignity”, che hanno un sapore neo-prog insolito per i Porcospini, me li sarei aspettati semmai in un brano dei Marillion.

Facciamo però una panoramica sui brani per capire meglio cosa ci si aspetta da questo attesissimo lavoro. Le tracce “regolari” sono 7 e possiamo dire che 4 di esse sono abbastanza in linea con le aspettative concedendo però qualche spunto nuovo ed interessante, le altre 3 invece sono delle vere e proprie sorprese. Come già detto le due più in linea con il percorso più recente dei Porcospini sono “Rats Return” e “Herd Culling”, sono quelle che conservano davvero lo spirito hard prog dell’ultimo periodo, dove i riff sono cupi al punto giusto, ma sono anche quelle dove Barbieri esegue il miglior lavoro, dove gioca meglio con gli effetti e dove la sua tipica effettistica emerge meglio. Molto in linea con le previsioni anche “Dignity” e “Of the New Day”; la prima è il classico brano lento e dilatato, prende in mano un ritmo pacato e lo trascina lungo tutto il brano, gioca bene con riff elettrici ed acustici e usa le tastiere principalmente per la rifinitura melodica; la seconda è invece è più asciutta e compressa, potremmo definirlo come “il brano pop dell’album”, è quella canzone leggera e fresca che si pone con semplicità senza strafare (Wilson ha però sottolineato come dietro a questa semplicità si nasconda una complessa alternanza di ritmi, diciamo che è un po’ quello che si osservava in diversi brani di “Octavarium” dei Dream Theater, la semplicità apparente dietro la quale si nasconde una complessità); potremmo dire che entrambe le tracce richiamino di più la fase intermedia del gruppo, quella esplicitamente più melodica e raffinata che si manifestava ad esempio in “Stupid Dream” e “Lightbulb Sun”.

Le altre tre tracce però fanno respirare una vera dose di freschezza. Già dalla prima “Harridan”: onestamente non mi sarei mai aspettato di dover avere a che fare con una bella manciata di minuti iniziali incentrati su un basso così spregiudicato e pestante, ma probabilmente nemmeno le percussioni simil-tribali nella parte di mezzo e i già citati loop elettronici. Già detto il necessario a proposito di “Walk the Plank”, che è davvero il brano sorpresa per eccellenza, quello meno porcospiniano del lotto. Onestamente però anche “Chimera’s Wreck” è a pensarci bene una composizione piuttosto insolita per il gruppo, fondamentalmente dà l’impressione di essere un brano più fedele al Wilson solista: le composizioni dei Porcupine Tree non si articolano mai con un certo dinamismo, non offrono fughe strumentali di rilievo, non offrono particolari crescendo di intensità, come detto prima rifiutano la classica composizione prog; qui invece tutto questo c’è, si parte con arpeggi acustici soffici ma dalla melodia brillante, prima più lenti poi più rapidi (e già questi non sono molto familiari), poi il brano cresce costantemente in velocità e in intensità come un vero brano prog, con scale di chitarra e soprattutto di basso, in cui Wilson percorre bene tutto il manico senza troppe remore; se a questo aggiungi il ruolo marginale di Barbieri (che rinuncia ai suoi classici effetti e tappeti) arrivi a concludere che forse sarebbe stato più congeniale in un album solista di Wilson, un’impalcatura simile l’ho trovata in brani come “The Watchmaker” o “Ancestral”, e in generale le composizioni di Wilson sono più coraggiose dal punto di vista prettamente strumentale; però mi piace così, avrebbe figurato bene in “The Raven that Refused to Sing” ma il fatto che si trovi in un disco dei Porcospini è intrigante, non è una novità per Wilson ma è una novità per i Porcupine Tree.

In generale comunque la sensazione è che Wilson abbia fatto tesoro delle proprie esperienze soliste per portarne alcuni tratti nella sua storica band, l’album sembra un po’ in generale esserne influenzato, la sensazione è di trovarsi all’incirca di fronte ad un classico album dei Porcupine Tree seconda maniera con in più quella punta di coraggio del Wilson solista.

Da non trascurare poi le tre tracce bonus dell’edizione digitale, che non sembrano essere degli insipidi scarti (come spesso le bonus sono). “Population Three” è una strumentale degna del loro nome, una sorta di “Wedding Nails” meno dura, con un bel groove e con squilli di tastiere ancora una volta piuttosto insoliti. “Never Have” è un brano pop raffinato che ci porta in territori Blackfield. Forse non brilla particolarmente “Love in the Past Tense”, che non sa dove andare a parare, non si capisce che tipo di brano vuole essere e sembra un po’ un’accozzaglia di idee unite assieme ma non sviluppate a dovere, un’accozzaglia comunque tutto sommato dignitosa.

Un ritorno che ci voleva davvero, di una band che aveva ancora da dire. Chissà se se sarà la chiusura o la continuazione (il titolo non è casuale, è lì apposta per porre il dubbio), chiusura sicuramente non della carriera di Wilson (che è già a buon punto con i lavori sul suo prossimo lavoro solista), ma dopo questo disco spero davvero che, usando il linguaggio delle riviste di moda, i Porcupine Tree siano tornati per restare.

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