Non è che tutti gli album dei Porcupine Tree siano indispensabili. Questo qua è soprassedibile, anche per i musicofili affezionati alle evoluzioni sonore di Mr. Wilson e dei suoi abili compagni di gruppo.

Trattasi di una suite che avrebbe dovuto far parte dell’album del 1993 “Up the Downstair”. Ma poi i suoi trenta, prolissi minuti di trance music stonavano col resto della musica presente, così la composizione è stata anticipata in solitaria, strutturata in due parti, in un extended playing del 1992. L’anno seguente il produttivo Wilson ha inteso di fare uscire, sempre in formato singolo esteso, una sua parte aggiuntiva, con ben altri 30 minuti divisi a loro volta in due sezioni. Nel 2004 è uscita infine questa raccolta di 60 minuti, contenente tutti e quattro i segmenti.

La copertina e il titolo sono già tutto un programma: pasticche roteanti su cielo spiralato… Siamo in presenza della colonna sonora di un bel trip di acido, cominciato bene e finito male. Per descriverlo musicalmente, Steven si appoggia al solo tastierista dei Porcupine Richard Barbieri e per tutto il resto combina lui, al computer e agli strumenti. Questo per quanto riguarda l’esecuzione, perché parlando di ispirazione, anzi di vero e proprio appoggio derivativo, vi è presenza di forti dosi di Pink Floyd, Mike Oldifield, Tangerine Dream.

Non una frase di canto, tutto strumentale, condito di suoni ambientali nonché di qualche parte recitata (non da lui), secondo i doverosi clichèe ambient music.

Steven Wison è un abilissimo, anzi geniale musicista onnivoro nerd, capace di assimilare a fondo, e risputare fuori in stupenda forma, buona parte di quello che il rock ha combinato dagli anni settanta in poi. Ascoltando le sue opere si oscilla sempre dall’ammirazione per l’indubbio estro compositivo, il perfetto controllo di suoni e missaggi, la certosina attenzione ai particolari, la razionale ma travolgente passione per il fare musica e offrirla in pasto agli appassionati, all’opposto disappunto per il puntuale retrogusto di riciclaggio, di passate idee altrui non semplicemente tenute come ispirazione, ma proprio rivestite e rimasticate non abbastanza da renderle nuove.

Cacchio, la cassa in quattro dei Pink Floyd di “Run Like Hell”, con tanto di chitarrone solista vagolante sopra, è quella! A chi piace ‘sta roba? A quelli chi si intrigano di paesaggi sonori, landscape in lento divenire, le ripetizioni per lunghi minuti dello stesso riff melodico/armonico. Potrei dire i Brian Eno dipendenti, per capirsi. A me non dispiace questa fuffa… una volta ogni tanto. Certo non provo lo stesso trasporto che per “Time Flies” (da “The Incident”, 2009), proprio no.

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