Scrivo questa recensione, anche se so di essere un doppione, per una sorta di nostalgica riesumazione dei bei tempi che furono in adolescenza. Fatta anche di estati trascorse in un piccolo e sperduto paesino montano con pochi ma fidatissimi amici e di giornate votate alla rottura della noia tramite creatività infinitamente demenziale. Spesso in realtà si finiva ebbri a rotolare nei prati e nei boschi o in nebbie neurali con aggiunta di un pizzico di tabacco, giusto in fondo. Ma era tanta roba.

Tra gli accompagnamenti musicali, da sempre per noi fondamentali, vi era questa band prodigio: le PornoRiviste. Omonime di quelle nascoste, a sua insaputa, nel capanno del nonno di un mio amico; rifugio per i delusi da amori non corrisposti e alcova per pionieri della pubertà.

Parliamoci chiaro, potremmo relegare col senno di poi tutta la faccenda ad una qualunque punk rock band italiana melodica, per giunta abbastanza mediocre e non so quanto punk effettivamente. Ma senza il senno di prima invece le PornoRiviste sono state pilastro di una mia stagione indimenticabile.

L’album in questione è del 2001 e forse può essere considerato il loro apice, mi spiego. Le tracce sono molte e quasi tutte “giuste”. Si tratta a mio modesto parere del loro piccolo capolavoro (parolone), che tira le somme sulle raccolte precedenti e raggiunge vette mai più sfiorate con i lavori successivi. Ma, tolto l’aspetto sonoro sul quale non mi soffermo perché non credo ci sia molto da dire, vorrei fermarmi un attimo sui testi.

"Codice a sbarre", titolo dell’album, allude alla prigione e alla produzione di massa del consumismo odierno. Beh, buona idea, ottimo inizio. Sulla scia del “sociale” abbiamo “La scatola dell’odio” che, ragazzi, lo si voglia o no è una piccola perla (pirla) fatta dai porci e data ai porci. I primi quattro versi potrebbero essere il mio epitaffio per ciò che mi riguarda [Che cosa pensi alle sette del mattino? / Stai in piedi bene o vedi a stento il tuo vicino? / Come ti collochi in un clima di tensione? / Mi scusa un attimo che scendo col bastone!]. Mi scusa chi? Tu? Egli? Forse si rivolge al padreterno o usa un mirabolante quanto inesistente Tobler-Mussafia inverso. Comunque sia, mi sono già innamorato di loro. Il resto della canzone inveisce contro multinazionali, vivisezione, papato, politica farlocca, polizia, ed è tutto “sensato” diciamo. Si giunge addirittura al turismo cannibale, alle code in tangenziale e via dicendo ma soprattutto ai [calci in culo a Emilio Fede]. Godo. Insomma è un pamphlet irriverente che conclude con [vi odio tutti quanti come voi odiate noi / cosa pensi?] Cosa pensi chi? Tu, io? Ah parlavano con me direttamente non avevo capito, ora si spiega anche il “mi scusa”. No, non è vero, vabbè.

“Tempi cupi” tratta del grigio contesto a cavallo dei millenni. Tra il berlusconismo che fu [mi hanno vinto / hanno usato / manifesti e televisioni] e le poche prospettive per i giovani, per i movimenti di ogni tipo e per tutto ciò che verrà. Rievoca i tempi andati, il ’68 e il ’77, contrapponendoli al presente e parlando del tempo che non guarda in faccia nessuno; ricorda il disastro dell’immobilismo di tutti noi [Sono a capo / di una folla / senza vita senza emozioni]. E come contorno propone le inutili lotte sociali [chi sta bene non aiuta / chi sta male s’incazza e sputa], ben consapevole che in fondo [la giustizia è nelle canzoni]. Sacra musica, aiutaci tu.

Ci si sofferma poi sulla chiesa, quella cattolica e apostolica, con “M.I.B”: la Macchina Incula Bambini, la quale mette in moto al battesimo, accelera con comunione, oratorio e catechismo, sbanda nel matrimonio e si schianta nel funerale. Loro la intendono più come “marchingegno-letale” ma la metafora del veicolo mi calza a fagiolo, mi casca a pennello.

“Questo liquido” è tutta una metafora sull’esondazione dell’Olona, da cui il brano “OVPRS” ovvero Olona Valley Punk Rock Show di "Fino alla fine", che s’incazza e spazza via fabbriche e uomini malvagi. Gente spietata con la natura e con l’ambiente ora castigata dal divino Olona. [È la tua valle / è la tua zona / adesso cacciali via]. Morite sfruttatori, morite tutti. Questo liquido inquinato, creato da voi, ora sarà la vostra tomba. Tiè.

Poi c’è la sezione più intimistica con “Seduto su una luce”, “Medicina”, “Coma da favole”, “Cinismo”, “Il gioco” e potrei andare avanti ancora e ancora e ancora. In poche parole si delinea una visione del mondo basata sullo scontro [che cazzo c’hai / con quelli come me / seduti su una luce / anni luce da te]; su una voglia di scappare dalla realtà [quel solito perché / che dice “voglio stare senza una ragione / e credi / al solito perché / in coma da favole], che spesso non offre un bel niente ai giovani [niente di buono / niente di bello / niente mi toglie da questa tomba] e altre invettive simili. In pratica molti stereotipi del punk vengono spiattellati in maniera più o meno confusa e urlata non senza spunti originali e parole azzeccate tra deliri assolutamente incomprensibili e incasinatissimi. Ma sicuramente con la sensazione di ascoltare qualcuno che ci crede sul serio e vuole urlarlo, sinceramente. E questo mi basta ed è sacro.

Per i più le Porno Riviste sono catalogate come una band assolutamente irrilevante nel panorama musicale italiano, e come dare torto ai più! Ma io spezzo una lancia a loro favore, condizionato dai sentimenti sopra espressi e non posso fare altro che amarLi. DeAmarLi.

P.S. La voce del cantante, Tommi, può piacere o non piacere, e nel mio delirio estetico mi piace assai, ma ammetto che spesso fa girare i maroni peggio delle “mignolate” contro la porta del cesso alle sei di mattina.

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