Disagio, tanto disagio.

Non può essere altrimenti. Io, con una mela in una mano, seduto sugli scogli, col Mediterraneo davanti a perdita d'occhio, un nugolo di persone nella vicina spiaggia indaffarati a far nulla e "Se questo è un uomo" nell'altra mano. Io, nel perfetto quadro della mia vita vacanziera, e Primo Levi nel suo inferno, non quello dantesco ma quello novecentesco, quello che nella cultura Occidentale è diventato l'inferno per antonomasia, il lager nazista.

L'opera ci scaraventa con estrema delicatezza nel buio della mente umana. L'autore ci accompagna per mano nel campo di deportazione di Monowitz, vicino al complesso di Auschwitz. Primo Levi è un Virgilio discreto, è un handycam meccanica e razionale che scannerizza per i posteri con assoluta precisione tutto ciò che rimane della cosiddetta "condizione umana", è un medico legale impegnato in una cruda dissezione di se stesso e della sua esperienza. L'autore ci racconta il viaggio verso il lager, le "routine" quotidiane del campo di sterminio, l'infermeria, il lavoro, la fame, il freddo, i nazisti, la morte. Nella prosa manca totalmente qualsiasi luce di sentimento dello scrittore, non ce n'è assolutamente bisogno. Le parole scavano nella nostra mente e nella nostra anima fino a far emergere il dolore e la rabbia e la frustazione di ogni deportato. I giudizi morali sono lasciati completamente nelle mani del lettore, non ne troveremo traccia nella lettura, chiara e scorrevole, semplice e devastante. I cattivi non sono "cattivi", sono solo persone che eseguono ordini calati dall'alto. La cultura scientifica del Levi "chimico" prende il sopravvento durante la narrazione, il "metodo sperimentale galileiano" è la stella polare da seguire per definire una sintesi universalmente accettabile e condivisibile. Il lager è un esperimento crudele e mortale, folle e totalizzante. "Se questo è un uomo" è una secca sportellata in faccia, di quelle che fanno male, di quelle che non verranno mai più dimenticate.

Io, seduto sugli scogli, alzo gli occhi dalle tenebre del libro e un riverbero doloroso mi acceca completamente. Mi fa male l'osso sacro ma faccio finta di nulla. E' forse questo IL dolore? Suvvia, non scherziamo. Mi rimane in mano il torsolo della mela. Faccio il gesto di gettarlo ai pesci ma mi blocco. Nei miei pensieri c'è gente che sgomita per dell'acqua sporca passata per brodo. In due bocconi il torsolo finisce nel mio stomaco, seguito a ruota dal picciolo. Mi sento ridicolo, molto ridicolo. Torno in spiaggia. "Amore, tutto bene? Hai finito il libro? I bambini ti aspettano, vogliono fare il bagno". "Certo, andiamo piccoli". Se possiamo goderci il bagno, è anche per merito di libri come questo.

Circa un anno fa finivo di leggerlo. Avevo paura di dimenticarlo, di trovarlo disperso nel mio oblio ma è ancora ancorato saldamente al mio interno. Sono un uomo fortunato, molto fortunato.

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