Il sesso e la morte, secondo Jarvis Cocker.
Dopo il successo di pubblico di “Different Class”, il bestseller che consacrò nel 1995 la band di Sheffield quasi come fenomeno di costume in Inghilterra (grazie o a causa dello sdoganamento mediatico di Jarvis, eletto come decadente opinion leader da una fascia di giovani che avevano adottato gli hits “Common People” e “Disco 2000” come inni generazionali) i Pulp, catapultati dopo anni di anonimato al top della musica inglese, fecero passare due anni e mezzo prima di pubblicare questo lavoro che in una retrospettiva postuma potrebbe sembrare un episodio minore, ma che in realtà rappresenta a mio avviso uno dei punti artistici più alti non solo del complesso ma di tutto ciò che si definiva pigramente "britpop" negli anni ’ 90.

Dopo l’addio del chitarrista Russel Senior, i Pulp attraversarono un momento di depressione, legato sia al ruolo sempre più claustrofobico e ambivalente di un Cocker che sembrava essere diventato schiavo del suo personaggio, e sia all’inatteso riscontro commerciale di canzoni orecchiabili che non rispecchiavano comunque la complessità e la profondità della loro proposta musicale.
Il risultato fu quindi un disco spiazzante e teso, in cui sotto un profilo concettuale venivano superati i dilemmi sentimentali adolescenziali dei lavori precedenti, per abbracciare tematiche più adulte e riflessive, utilizzando la metafora della pornografia come quadro della decadenza dell’età, dell’angoscia sociale di un’Inghilterra di fine millennio che aveva perso l’entusiasmo collettivo di pochi anni prima, un mal de vivre reso esplicito e graffiante negli amari testi di un Cocker 34enne nel pieno della sua maturità lirica.

Le musiche, condite da arrangiamenti orchestrali e accompagnamenti acustici, rispecchiano questa inversione di tendenza enfatizzando i versi di Cocker, mai come in questo caso debitore del suo mentore Scott Walzer: si va dall’iniziale, drammatica “The Fear” con un coro da musical dell’orrore, alla malinconica “Dishes” che si apre con il geniale verso “I am not Jesus, though i have the same initials” e si conclude con una frase piena di fatalità e disillusione (“I’ m not worried that i will never touch the stars, ‘cause stars belong up in heaven, and the earth is where we are”).
“Party Hard”, il brano più duro dell’album, ricorda il Bowie di “Lodger” e inizia il leitmotiv della malata ossessione erotica che pervade la maggior parte dei pezzi, così come in “ Help The Aged” , delicata ballata anni ’70, Jarvis canta il tempo che scorre e l’avanzare dell’età senza inutili retoriche ma andando dritto al sodo con disarmante onestà (“Help the aged, one time they were just like you, drinking, smoking cigs and sniffing glue”) rivolgendosi più ai ragazzi che avevano quasi eletto i Pulp come teen idols che non agli anziani cui è dedicata la canzone (“You can dye your hair but it’ s the one thing you can’ t change: can’ t run away from yourself”).

Si arriva poi alla title track che è un capolavoro formale di sei minuti e passa attraverso ai quali si assiste a una discesa agli inferi di un attore porno che ha perso ogni interesse per quello che fa e per lo scorrere piatto di una vita sempre uguale, ripetitiva, in cui tutto, l’amore, il sesso, la morte, le droghe, diventano solo tappezzeria della propria solitudine (“This is the end of the line: i’ve seen the storyline played out so many times before”) in uno strepitio di archi, chitarre “greenwoodiane” e armonie di pianoforte che rendono sempre più labile l’equilibrio tra dramma consumato e farsa glam che rende ancora più beffardo il risultato finale.
Dopo l’altissima intensità di “This Is Hardcore” (che, scelto come singolo, fu accompagnato da uno dei più belli videoclip che abbia mai visto) la tensione diminuisce con due quadretti acustici e dimessi, “TV Movie” in cui Jarvis usa un modo originale per descrivere l’assenza di una persona (“Without you my life has become a hangover without end, a movie made for TV: bad dialogue, bad acting, no interest. Too long with no story and no sex” ) e la rilassata “A Little Soul” (ispirata in qualche modo a Prince) che traccia un legame con i precedenti album. Così se “I Am A Man” sdrammatizza le cupe trame dell’ album grazie a una tipica melodia pop dei Pulp più sbarazzini, “Seductive Barry” si propone invece come perfetto alter ego di “This Is Hardcore”, un duetto sensuale e umido tra Jarvis (che recita più che cantare) e una Neneh Cherry mai così femminile, un brano lussurioso che sembra volere evocare un preliminare di un incontro occasionale, che si protrae fino a dare un effetto ossessivo, turbato, una disperazione sessuale che aumenta con il pulsare del basso di Steve Mackey e con l’evoluzione vocale di Jarvis che qui sembra avere preso come modello di riferimento il Marc Almond più lascivo.
“Sylvia” è invece probabilmente interpretabile come una canzone profondamente legata a una situazione personale di Cocker, che affronta il tema della solitudine sociale rivolgendosi a una ragazza persa di vista probabilmente per sempre, con un messaggio fintamente ottimista ma comunque incentrato sempre sulla difficoltà nel prendere in mano le redini della propria vita; questo messaggio è reso più esplicito in “Glory Days”, che melodicamente è una via di mezzo tra la famosa “Common People” e “Suzanne” di Leonard Cohen e che ipoteticamente sembra ripercorrere lo stesso iter di altre “canzoni d’ amore” come “Heroes” di David Bowie.

Si chiude con l’emblematica “The Day After The Revolution” (già il titolo meriterebbe una considerazione a parte) in cui Jarvis (che di lì a poco lascerà l’Inghilterra per trasferirsi con la moglie a Parigi) si congeda con dei versi che partono dalla sua esperienza privata per arrivare dritti all’ ascoltatore, in un crescendo emotivo che trova riposo solamente quando la melodia termina in un accordo di tastiera che dura una decina di minuti: “I have waited and waited for this day to arrive, the revolution was televised. Now it’ s over, bye bye. Perfection is over (The Rave is over). Sheffield is over. The Fear is over. Guilt is over. Bergerac is over. The hangover is over. Men are over. Women are over. Cholesterol is over. Tapers are over. Irony is over. Bye bye. Bye bye.”

Ed è tutto, per un album spinto da un grande quoziente passionale e intellettuale, un concept che può essere sintetizzato nella frase del packanging “ IT’ S OK TO GROW UP-JUST AS LONG AS YOU DON’ T GROW OLD, FACE IT… YOU ARE YOUNG.” e che forse non è stato compreso e apprezzato nella sua originalità (vuoi anche per le bizzarrie della promozione, che i Pulp affidarono a delle attrici porno incaricate di pubblicizzare il disco) ma che va sempre benissimo per passare una serata tra sigarette e Port & Lemon… e magari dopo anche scopare.

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