Voi sapreste fare una recensione su vostra mamma? Verrebbe da dire di no, ma forse si può fare anche quello. E cosa c'entra con Kill Bill? Tutto. C'entra tutto perché sto film è un po' l'utero che ha partorito la mia passione per il cinema. Non l'ho solo visto e rivisto, l'ho sezionato, l'ho aperto come un corpo ancora caldo, sbavando su ogni dettaglio, scoprendo un modo efferato di fare cinema che prima ignoravo. Kill Bill è una parte di me, una fetta della mia visione estetica, sezionata per bene con una spada di Hattori Hanzō.

Ma dopo quindici anni è possibile recuperare una visione ulteriormente critica. Tarantino del 2003, visto dal pinnacolo del 2019, ha un sapore molto diverso. Ha una leggerezza sbarazzina che non ricordavo. È tutta una coreografia, un gioco estetizzante che viene prima della storia, prima della protagonista, prima dei contenuti morali della vicenda (che pure ci sono, ben nascosti ma cogenti). Una mattanza perpetrata a cuor leggero su musiche allegre, a volte quasi demenziali, che annullano la drammaticità in certe fasi. Il dramma è quasi parodiato (nel volume uno), sembra un pretesto per scatenarsi e scannarsi. (Il testo è pieno di spoiler).

Cinema per il cinema

Ieri, rivedendolo su Netflix con mio zio (occhi sbarrati), mi sono stupito di una cosa. Durante il capitolo Le origini di O-Ren, ricordavo perfettamente la musica malinconica che accompagna le sequenze animate, quando il boss Matsumoto fa uccidere i suoi genitori. Nella mia testa la musica è partita prima che nel film. È un dettaglio, e si potrebbero fare infiniti altri esempi (la sirena quando incontra gli arci-nemici, i cambi di colore e fotografia), ma è significativo di come lo stile qui sia letteralmente indimenticabile. Ogni singola nota, l'occhio della piccola O-Ren, gli spruzzi di sangue, tutto resta imperfettibile nella memoria. Qui non si parla di storia e guerra, o di razzismo; non c'è politica. È un cinema che si autoalimenta, con ingordigia, ma non arriva ancora alle complessità concettuale di C'era una volta... Cinema per il cinema, al suo meglio. In effetti, prima della critica post-postmoderna (l'ultimo film), serviva un'esposizione della materia post-moderna in sé. Eccola qui, nella sua tracotanza, che però non esclude diversi spunti dialettici.

Ritratti

Un lavoro che, come sempre accade con Quintino, evita di prendere la questione di petto. E se qui il focus è la vendetta di Beatrix (nome censurato fino a metà secondo film, chiediamoci perché...) nei confronti di Bill, per tutto il primo volume non si capisce proprio il movente. Non si capisce nemmeno bene che rapporto ci sia tra i due, non è esplicitato. Eppure, non c'è tempo per chiederselo. Non c'è tempo perché questo è un film di digressioni, di ritratti laterali, di diramazioni che danno, ma negano anche. Dicono qualcosa delle cinque vipere assassine, ma la loro forza sta nel non dire tutto, nel lasciare sempre un languorino. Ogni ritratto è un piccolo capolavoro. Un volumetto di grammatica del cinema.

Vernita Green s'è sistemata, ha messo su famiglia. Sua figlia ha l'età del coma di Beatrix. Come se quell'atto scellerato l'avesse cambiata, dandole la spinta a creare una nuova vita (su cui il passato torna vendicativo, per ribattezzarla nel sangue). Budd viene maltrattato dal suo capo come un topo di fogna, la collega gli chiede se può occuparsi del bagno pieno di acqua e merda. È un uomo piccolo e pragmatico, che quasi infierisce sull'orgoglio del fratello per smitizzare il suo mondo, per togliere enfasi alla sua epica. “Per quella spada mi davano 250 dollari”. Elle è il doppio degenerato di Beatrix, che racconta sadicamente di quando avvelenò le teste di pesce di Pai Mei. Il maestro che è cartina tornasole della moralità insita - o assente - nelle sue allieve.

(È la moralità di B. che le apre la porta della tecnica segreta, Pai Mei si compiace del suo sottostare all'autorità, anche quando impone regole quasi disumane. Ed è la tecnica segreta che la farà vincere su Bill, altro allievo degenere).

Poi c'è O-Ren. Non basta una normale digressione per lei, serve un cambio di linguaggio. E allora il colpo di genio. Nel bel mezzo delle disavventure della Sposa, con grande gusto sincretico, inizia un film nel film, un cortometraggio animato per spiegare l'odio profondo, disumano, che O-Ren cova dentro di sé fin da bambina. Ogni ritratto è una tessera essenziale in un film che rimanda in continuazione il nocciolo emotivo della sua vicenda. O-Ren è quasi protagonista, fin tanto che la Sposa resta avvolta nel mistero.

A-moralità

Come si fa a dare il crisma della moralità a una protagonista che fa a fette centinaia di nemici, colpevoli solamente di frapporsi tra lei e i suoi obiettivi della death list five? Ma ce lo spiega Quintino! Un trucco che riprenderà anche in Django e Bastardi. C'è la violenza non connotata moralmente, che è una danza gioiosa, una coreografia (gli 88 folli, una festa di sangue). E c'è quella scellerata, quella che fa contorcere le budella. Elle che avvelena Pai Mei, Bill che si presenta ai Due Pini. La nostra eroina si muove in un limbo che funziona da salvacondotto. È una killer, ma non è mai sadica, il suo sguardo non è compiaciuto. È nata Superman, non ci può fare niente. Addirittura risparmia un piccolo e lo sculaccia per essersi smerdato con la Yakuza. “Torna da mamma!”.

La frizione tra furia omicida e regole morali si accende di fronte ai bambini. Nessuno vuole mostrare le lame ai più piccoli: così, quando Nikki arriva da scuola, sua madre e Beatrix si fermano, fingono (malamente) che tutto vada bene. A maggior ragione, la resa dei conti con Bill va procrastinata, perché c'è B.B. che deve cenare e guardare i cartoni. Sono dei paradossi magnifici, che individuano la scintilla di umanità anche nei killer spietati. Se vogliamo fare delle distinzioni, la differenza tra killer buoni e killer cattivi è data proprio dal rispetto di certe regole imprescindibili, come il rispetto dei bambini, della parola, dell'autorità.

Tutto nasce da questo. Per Beatrix essere mamma ed essere killer sono cose inconciliabili. Per Bill no. Per Beatrix, l'autorità del maestro Pai Mei è indiscutibile, per Elle no. Sempre per Beatrix, la parola data ha valore, per Vernita Green e Bill no. Loro la attaccano a tradimento, e lei a quel punto non può far altro che rispondere.

Contorsioni narrative

Non mi dilungherò su quanto già ampiamente segnalato a suo tempo, sugli omaggi a certo cinema etc. Mi interessa altro, lo stile e le cadenze della narrazione, che mai come in questo caso sono piegati alla resa estetica ed emotiva.

Si inizia con Capitolo 1: 2, e già questo dovrebbe far riflettere. Ma stavolta la torsione va ben oltre i paradossi (apparenti) di Pulp Fiction. La scansione in due volumi, per quanto imposta, viene sfruttata da Quintino per suddividere emotivamente la materia. Così, abbiamo un capitolo muscolare, nel quale ignoriamo i moventi e non sappiamo quasi nulla della protagonista, e uno dolente, fatto di scelte dure, di perdite che feriscono, di asprezze e sepolture, inganni, serpenti, tradimenti, e infine il puro sentimento materno che annulla tutto quanto (qualcuno critica la violenza verso le donne nei film di QT, ma ha mai visto Kill Bill?).

La torsione narrativa è enorme, in pratica il tempo è polverizzato. Alla fine del primo capitolo, sappiamo molto di più sul conto della cattiva che su quello dell'eroina. Quasi ci sta più simpatica O-Ren della bambolina americana. Che veste la tuta di Bruce Lee, è quasi de-umanizzata nel suo essere angelo della morte (e un angelo della morte non fa peccato, fa quel che deve). Poi si apre il secondo capitolo e non la vediamo più in tutina gialla. La vediamo in sandali, con il vestitino blu, con gli orecchini. Ora possiamo capire un po' meglio la sua storia, dimenticarci delle cataste di cadaveri e infine addirittura scoprire il suo nome. Che è come stringerle la mano ed entrare in confidenza con lei, che non è più angelo di morte ma madre amorevole.

La killer tra parentesi

Nel primo la tensione di rinascita e affermazione è centrale (è un percorso di formazione ex novo, dalla paralisi alle acrobazie, acquisendo nozioni, mezzi e una spada forgiata appositamente). Il secondo ridiscute daccapo la vicenda. La spiega veramente dopo averla solo abbozzata. Sappiamo per certo che Beatrix arriverà da Bill (ce lo dice lei, rompendo la quarta parete, all'inizio), e sappiamo pure che vincerà, perché è palese. Quindi non ha senso puntare su quello. Allora per conquistarci QT scava a ritroso, e smorza la parabola vendicativa, la mette tra parentesi. È più interessante capire perché si è arrivati a questo punto, che il punto in sé. E allora ecco il massacro ai Due Pini, gli insegnamenti di Pai Mei, il doppio antitetico con Elle, il ritratto in absentia di Bill, il pollice succhiato oscenamente. Gli scontri sono smorzati, perché Beatrix adesso è un'altra. Diventa personaggio vero e positivo, non può essere killer come nel volume uno. La violenza torna ma dal versante opposto: ora è una scelta a mali estremi, perché siamo in un altro film, in un altro genere.

Budd non lo uccide lei, Elle non la uccide proprio. E Bill... arrivati alla fine non è tanto importante rimarcare la vendetta. È importante invece rimarcare l'aporia morale. Bill è fedele al suo essere supereroe, e cresce la figlia nella coscienza del male quotidiano. Beatrix è fedele al suo essere donna, e non vuole crescere sua figlia in un ambiente senza moralità. Ma è fedele anche alla sua vendetta, che viene prima della necessità (teorica) di risparmiare il padre di sua figlia. È una leonessa, per il suo cucciolo non si fermerebbe davanti a niente e nessuno. In fondo, però, perpetrando la sua vendetta ai danni della sua stessa famiglia, Beatrix non fa altro che confermare la narrazione di Bill: lei è una killer. E una madre amorevole, ma che di tanto in tanto “sa essere una gran troia”.

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