Ogni tanto è cosa buona e giusta incrementare la raccolta di chiacchiere su qualcuno dei dischi di Randy Newman, ancora scarsamente rappresentati in questo sito.
Sarò breve, senza ripetermi in complimenti e ammirazione per il californiano Randy: che c’è dunque di buono in quest’opera del 1974, la quarta della sua discografia? C’é che stavolta se la prende (bonariamente, ironicamente, malinconicamente come da suo carattere) con la ristrettezza mentale imperante negli stati del sud degli USA… Titoli come “Rednecks”, “Louisiana 1927”, “A Wedding in Cherokee County” sono esplicativi a riguardo.
Ma belle frecciatine vengono indirizzate anche ai “nordisti”, colpevoli di ipocrisia perché ad esempio hanno voluto i niggers liberi si, ma solo di stare ingabbiati nei loro ghetti, tipo Harlem a NYC, Roxbury a Boston eccetera. Mi dà soddisfazione leggere nei testi e sentire dalla bocca di Newman questa parola, nigger, che da qualche decennio a questa parte ha subito un ostracismo ridicolmente radicale, tuttora ben vivo. Che c’è di male a definire “negro” una persona di colore? Chi ha deciso che ciò fosse altamente offensivo, costringendo tutti a passare a quel “black” molto più generico, riferendosi a un colore? Nel 1974 “negro” si poteva ancora dire liberamente e Randy Newman canta questa parola, ora negletta, in “Rednecks” una delle sue composizioni preferite, che però oggi evita di portare sul palco, proprio a causa del testo. “Woman is the nigger of the world…” cantava Lennon, “Siamo i Watussi gli altissimi negri” cinguettava Edoardo Vianello e Fausto Leali gli faceva eco con “Signore, sono un povero negro…”, oggi non va bene! Che cazzata…
Quelli a cui le musiche di Randy Newman annoiano (gli episodi migliori del disco li ho in ogni caso nominati) almeno si leggano i testi, veramente toccanti, arguti, di assoluto livello, specie per chi ha un’idea decente di come ragionano negli Stati Uniti, una nazione profondamente e visceralmente diversa da noi in tutto, non solo nel mangiare e nella fissa per il baseball e le armi, e questo malgrado gli ormai ottant’anni di… ehm… colonialismo nei nostri confronti.
Col suo disincanto, la sua intelligenza, il suo quieto pianismo, i suoi arrangiamenti in stile anni cinquanta e sessanta, ovvero quelle orchestrazioni che siamo soliti accostare alle colonne sonore dei film del genere “telefoni bianchi” (musiche spesso composte dai suoi familiari, zii e prozii… Randy discende da una famiglia di Morriconi losangelini!), Newman non è per tutti i giorni, non funziona come sottofondo al lavoro, alle faccende di casa o a chissà che altro: bisogna proprio immergervisi, concentrarsi un poco, testi alla mano e disponibilità verso suoni per niente rock e decisamente pre-sessantottini.
Una volta entrati in sintonia è godimento e ammirazione. Poi, dopo due dischi, ci si stufa e si torna ai Led Zeppelin va bene, ma quest’uomo e le sue cose musicali sono unici e interessantissimi.
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