Moda recente, e tutt’altro che disprezzabile, è quella di visitare il gigantesco repertorio della canzone italiana in chiave jazz. Ricordo quando negli anni ottanta comparve uno dei primi prodotti di questo tipo, ovvero un doppio lp nel quale si leggevano in chiave jazz grandi classici (e non) del repertorio Battistiano. Allora Lucio era splendidamente ancora tra noi, produceva a cadenze biennali gli imperdibili bianconi panelliani, e tutti ci chiedemmo cosa ne pensasse Lui dell’operazione (che vedeva coinvolti personaggi del calibro di Rava e di quell’altro calibro di Mango…). Da lì in poi, secondo il dettato di Miles secondo il quale bisognava aggiornare il repertorio di “standards” (ricordate, sempre nei favolosi e sottovalutati eighties, l’intepretazione di “Time After Time” e “Houman Nature” ?), tutti o quasi si sono misurati col repertorio cosiddetto “leggero” (che, quando ben scritto, di leggero ha veramente nulla).
Ed ecco allora gli splendidi dischi di Renato Sellani, pianista antico e gigantesco, dedicati a Paoli, a Tenco e a Lauzi (di cui ho già parlato altrove), ecco altri dischi (Tiziana Ghiglioni, ad esempio) dedicati a Tenco o a Battisti, e molti dedicati alla grande canzone classica italiana. Insomma: i nostri -ottimi- jazzisti si sono misurati coi repertori che, armonicamente, si prestavano di più all’interpretazione dei canoni “afroamericani”. Rarissimo è, infatti, scovare interpretazioni di giganti quali “De André” o, soprattutto, Paolo Conte. Quest’ultimo, pur essendo intriso del miglior swing fino al midollo, ha sempre seguito regole “pre – bebop”, confessoriamente ammettendo il poco interesse per tutto ciò che potremmo definire “dopo – Miles”. La canzone classica, invece, come quella dei citati cantautori soprattutto di scuola genovese, si presta moltissimo: le armonie sono figlie dell’amore sconfinato per l’America che albergava in tutti i compositori europei di metà novecento.
Dunque, il jazzista ci sguazza. Felice. E qui, in questo splendido disco in duo del 2000, di woodyalleniana memoria (il titolo è un omaggio esplicito, figlio d’un comune sentire tra cinema e musica), s’incontrano il pianismo ultraprofessionale di Sellani, capace di suonare benissimo quasi tutto (probabilmente il miglior pianista “accompagnatore” che l’Italia abbia avuto) e la tromba di Enrico Rava, ovvero lo strumento più importante e rappresentativo, oggi, del jazz italiano. Le scuole, però (va detto, malgrado la maestria istrionica di Sellani renda sempre tutto più semplice) sono assai diverse. Se Renato Sellani infatti è sicuramente cresciuto “mangiando” Hines e Peterson, ma anche, probabilmente a Powell e Tatum, ma con un lunghissimo retroterra d’accompagnatore di cantanti, suonator di sottofondi di lusso ed altro, Enrico Rava ha conosciuto e conosce benissimo il linguaggio di Miles e di Chet, ha vissuto un lungo e celebre “periodo free” per poi discostarsene e dedicarsi, come tutti i grandissimi (Jarrett su tutti) al culto ed alla “coltivazione” delle sole “note necessarie”, come direbbe lui. Ma le due scuole, seppur così diverse, qui s’integrano e dialogano alla perfezione. Rava evita gli “urli” e si dedica a un fraseggio più “rispettoso”, oltreché a un’esposizione dei temi rigorosamente sui confini degli originali, mentre Sellani fa il suo mestiere come meglio non potrebbe.
Il repertorio è quello che li ha trovati senz’altro d’accordo, essendo i due non proprio giovinastri. Ma è anche dedicato, esplicitamente, a quando la musica veniva dalla Radio, davanti alla Radio ci si piazzava ad aspettare le note amate, e non c’era alternativa a Radio e Concerti, se non i primi “patelloni” in vinile, appannaggio inoltre non certo dei meno abbienti. Il brano più recente è infatti un omaggio alla sottovalutatissima penna di Bindi (“Arrivederci”), mentre tutto il resto risale nel tempo, ed è nell’immaginario collettivo italiano, come “Ma L’Amore No”, “Parlami D’Amore Mariù”, “Amore Baciami”, ecc…. Forse un po’ incoerente, anche se non malvagia, la chiusura del disco con due brani “live”. Uno è una ripetizione del brano d’esordio, alternativo ma piacevole, mentre l’altra è un’interpretazione di “The Mai I Love”, bella ma abbastanza fuori tema, oltre che un po’ “strasentita”. La presenza di questi due conclusivi “live”, belli e inutili, anche in termini di durata totale del disco, conferma che se qualcosa manca in Italia, questa è una seria, e magari giustamente ruffiana, strategia di marketing. Comunque il disco è bellissimo, notturno, adatto all’ascolto quanto al sottofondo di una bella cenetta che meriti la musica…che so: un castelmagno con un buon miele e un passitino come dio comanda ci starebbero bene.
Poi, seduti su un bel divano, innanzi a cotanta Meraviglia Musicale, un bel sigarillo non guasterebbe.
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