Se il nostro fosse un mondo migliore, probabilmente i Fugazi non sarebbero ricordati solamente per la loro immagine politica, per il loro attivismo, per i loro concerti da 6 euro, per i loro cd da 10, per la loro resistenza alla presunzione delle major, per il loro stile di vita al cui cospetto tutti questi tanto sponsorizzati gruppetti pseudo-punk fanno la figura degli scolaretti. Se il nostro non fosse un mondo alla rovescia, i Fugazi sarebbero ricordati per le canzoni, e scusate se è poco.
Canzoni che in tutti i mondi possibili sono degli hit mostruosi tranne che nel nostro, che può pure continuare ad andare alla rovina. Ian MacKaye e Guy Picciotto hanno semplicemente, nel corso degli anni, costruito la più valida miscela di post-hardcore del decennio, artisti di misconosciuta grandezza.

Formatisi agli albori dell’anno 1987, e distintisi all’interno di quella – grezza e feroce – scena punk dell’East-Coast attraverso numerose esperienze maggiori (di rilievo quella di MacKaye nei Minor Threat, trascurabile quella nei Teen Idles) e minori (Embrace, precursori dell’emocore, nel bene e nel male) i Fugazi sorvolano la fine del decennio e l’intero arco dei ’90 attraverso una dozzina di lp di caratura e sostanza, sviluppando negli anni un percorso non lineare alle mode ma a queste contrapposte, cavalcando gli stili attraverso carezze e calci nel culo.
Di questi numerosi lavori, il migliore resta l’insuperato capolavoro a cavallo dei due decenni, “Repeater”.
Ancora attualissimo, in esso si possono scorgere i semi poi germogliati e i rami che furono poi tagliati dal fusto chiamato Fugazi, miscela esplosiva di 30 anni di rock and roll, in cui fondono garage (“Merchandise”) e punk (“Brandan n.1”), emocore (“Shut The Door”) e punk sguaiato (la title track) funk e spruzzi di metal (l’iniziale “Turnover”), aperture melodiche inaspettate (“Reprovisional”)... attitudine lercia, inanzitutto, nel corpo e nello spirito.
Saranno ancora grandi, ma mai così grandi. Un monumento del decennio che abbiamo lasciato alle nostre spalle, un inno alle gioia di urlare nelle orecchie delle teste di cazzo di allora e di oggi.

Ho fatto un sogno ieri notte: io mettevo su sto cd e lo sparavo al massimo. Poi bussano alla porta: i carabinieri chiamati dai vicini mi impongono di abbassare il volume. Inizia una colluttazione. Poi, nel preciso istante in cui parte la raffica di basso di “Greed” vedo uno di loro che non si ferma più e comincia a ballare ed io ballo con lui e tutti balliamo con lui. E tutti siamo felici. E lo sento dire che – cazzo – dovrebbe proprio acquistare la casa che confina con la mia, che si dovrebbe proprio fare una perquisizione ai miei vicini, che non si sa mai ti trovi una buona scusa per il foglio di via.
Poi mi sono svegliato, e “Greed” era finita. Era solo il mio mondo che stava cambiando, almeno nei sogni.

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