Secondo (ed ultimo) lavoro per questa band tedesca, uscito un anno dopo il loro esordio "Ashore The Celestial burden" e dal quale si discosta in modo sconcertante.

"Mission", che introduce l'album con una certa determinazione e consistenza, ci porta a "Dead In Love" e "Of Sceptre Their Ashes May Be", due canzoni che pur mantenendo fede ad un impasto sonoro a tratti arpeggiato e onirico propongono una struttura ritmata, quasi andante la prima, più aggressiva la seconda. Proseguendo in quello che sembra un cammino verso un miraggio indecifrabile e non il susseguirsi di episodi separati tra loro, si passa a "Mechanismeffects", la canzone più veloce del disco nella quale la doppia cassa la fa da padrona soprattutto nel finale. Ma proprio a questo punto il viaggio assume un carattere magico e sognante: "Fatehistory" inizia con il dialogo tra ‘il profeta' e ‘la verità', i toni apocalittici e misteriosi producono delle sonorità che tendono a disperdersi, la voce di Christian Martens (quasi irriconoscibile rispetto ad "Ashore The Celestial Burden" di un anno fa) assume tonalità sempre più pacate e meno violente. Il mosaico musicale che fa di "Diana Read Peace" un album variegato e imprevedibile si arricchisce ancora di episodi contrapposti, "Peace in My Hands" vive di momenti di rabbia sferzante spezzati da parti strumentali che rallentano anche se pure il finale è in crescendo; "My Repertory Of Grey" è ancora più incerta nel suo intercedere fra arpeggi di chitarra e pause, la splendida e strumentale "The Mindartist" e "In And For Nothing" hanno un sapore quasi thrash, con la batteria sempre in risalto (altra differenza con l' album precedente).

Si arriva all'atto conclusivo con la maestosa "Pandemonium" (la città dell' inferno di Clive Barker), canzone che meriterebbe una recensione a parte, coi suoi 9 minuti e mezzo nei quali la tipica cadenza doom-metal iniziale lascia presto spazio ad un cantato quasi sussurrato, i fraseggi di chitarra rubano sontuosamente la scena creando un' atmosfera laconica e distante, disperdendosi e sfilacciandosi in giochi melodici tanto stupendi quanto fini a sé stessi, per poi riallacciarsi in un finale potente nel quale (ed è l'unica volta) il timbro vocale di Martens torna ad essere lo stesso di "Ashore The Celestial Burden".

L' outro conclusivo "Myth" ci lascia inebriati da un album che probabilmente non capiamo fino in fondo e che forse è fatto apposta per celarsi dietro ad un'aura di timida magia e visioni sfocate.

Il disco è tecnicamente perfetto, le soluzioni chitarristiche e le strutture di quasi tutte le 12 tracce sono incastonate ad hoc, eppure... qualcosa si intravede e ci inquieta tra il magma di note che fa da sfondo a questo (a mio parere bellissimo) disco, ma non è la tipica tristezza del Doom classico, né tantomeno la raffinata ricercatezza sinfonico-compositiva del Gothic orchestrale. Si scorge una malinconia che pian piano si fa strada attraverso tutto "Diana Read Peace", e che ci consegna un lavoro musicalmente accurato (a tratti anche eccessivamente, soprattutto nella ricerca di ‘difficilismi' strumentali) e profondamente intriso di una consapevolezza fatale che svanisce insieme ai Dark Millennium, dei quali non si sentirà più parlare.

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