Quando Jim entrò nel campo di basket aveva dodici anni ed era solo. Non c'erano ancora trasmissioni televisive che strumentalizzavano l'adolescenza e nemmeno avide scrittrici che si facevano passare per bambini disadattati allo scopo di far soldi. Jim era un talentuoso Davide bianco in mezzo ai Golia neri, un ragazzino incastrato tra le rigide leggi cattoliche da una parte  e un mondo libertino fatto di eccessi dall'altra. Pochi passi dalla limpida chiesa di San Marco sulla Bovery e le facciate sporche delle case lungo la Lower East Side di Manhattan, dove Jim era uno di quelli che aspettava il suo uomo con i famosi ventisei dollari stretti nella mano. Ancora prima che Lou Reed cantasse il lato selvaggio della strada,  Jim era là a battere per bruciarsi di eroina e scrivere freneticamente della sua giovane vita.

Quando Jim uscì dal tunnel aveva trent'anni e  un sacco di amici del giro rock: Patti Smith, Allen Lanier, Lenny Kaye, Tom Verlaine. Nel 1980 il tempo dei diari del basket era ormai lontano ma aveva ancora storie da raccontare e un nuovo mezzo per farle viaggiare: la musica. Ballate sporche fatte di un rock secco e spietato come la vita nei bassifondi perfidi e romantici della Grande Mela.

La New York che Lou Reed avrebbe cantato nove anni dopo è già nei solchi di "Catholic boy": la lezione dei Television e di Patti irrobustita attraverso dieci brani spigolosi che se ne vanno in giro senza ipocrisia nei quartieri più sordidi con la loro fauna di puttane, magnaccia e drogati.  La voce tagliente di Jim carica di accenti perversi grandi affreschi rock come "Wicked Gravity", anthem nichilistici fatti di schitarrate hard come "Nothing is true", sveltine punk a ritmo di filastrocca come "Three Sisters", riffoni che si incattiviscono in "It's Too Late" (...ormai è troppo tardi per innamorarsi di Sharon Tate ) o ancora  i ritmi spezzati à la Verlaine/ Television della title track.

Ma in fondo come in tutte le storie disperate c'è sempre bisogno della tenerezza, della melodia che penetra una ballata dolcissima come " Day and Night" oppure "I Want the Angel", che si appropria dello stile del gitano del CBGB's, Willy De Ville. E quando arrivano i sette minuti di "City Drops into the Night" con il sax del turnista degli Stones, Bobby Keys, ad avvolgere di un alone epico un brano che potrebbe sciogliersi della notte della New York rockettara come quella della Londra new wave, allora capisci che Jim con questo disco è andato oltre la musica per colpire nei sentimenti.

E stavolta a farsi quella passeggiata sul lato selvaggio della strada non ci sono i personaggi mitici della fauna newyorkese narrata da Lou Reed come Holly che  diventa una drag queen, Candy che fa pompini nella stanza sul retro, il piccolo Joe che lo dava via per soldi o Jackie completamente fatta d'anfetamine. Quelli di Jim in "People who died" non camminano più, sono gli amici d'infanzia che lui ha visto morire. I quattro accordi veloci del punk rock per raccontarci senza retorica di Teddy che a dodici anni cade dal tetto strafatto di colla, Judi che si lancia sui binari della metro, Sly che si becca una pallottola in Vietnam, Eddie pugnalato alla giugulare in un vicolo buio.

Chissà Jim, forse senza i tuoi casini saresti diventato un grande giocatore di basket. Se così fosse stato, magari non avrei nemmeno ammirato il tuo talento in azione. Ma è meglio che sia andata in questo modo, posso di sicuro ascoltare quello racchiuso in un disco che ancora oggi è sul ripiano dello scaffale dedicato ai preferiti.

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