Eccoli di nuovo, loro, zitti zitti, tomi tomi, i due canadesi Crystal Castles, dopo solo 24 mesi da quel pasticciaccio lussurioso di elettronica kitschissima, glitchissima, lo-fissima intrisa di suoni a 8-bit da far sobbalzare i nerd più nostalgici che era il loro esordio eponimo. Che non fossero proprio dei simpaticoni si poteva già intuire dal primo disco, sfolgorante sì, allucinato pure, ma di certo denso di atmosfere piuttosto “tese”. A questo punto ci tolgono ogni dubbio mettendo in copertina una ragazzina dal volto scuro che si staglia davanti alle lapidi degli eventuali genitori e chiamando questo secondo lavoro “Crystal Castles”, proprio come il precedente.
Tuttavia, apparenze a parte, è nel cuore succoso del disco che ci si rende conto che molte cose son cambiate in questi due anni. Innanzitutto son scomparse quasi totalmente quei ruvidi e sballanti suoni da Commodore 64 o NES che dir si voglia: nota dolente per chi, come me, aveva apprezzato follemente il debutto del duo torontiano. Solo qualche assaggio succulento ne resta nei due brani più ballabili del disco: “Intimate”, grasso e grosso panzer discotereccio, bipbipante, scorreggiante e inquinante, un tiratissimo tour de force per le sinapsi che collegano il cervello al culo. E “Baptism” una hyperballad cattiva, sognante e un filino frastornante che si rifà molto a un loro vecchio pezzo (“Courtship Dating” fra l’altro utilizzata da MTV per pubblicizzare il serial Skins).
Il resto, che poi è la maggior parte del disco, invece, prova soluzioni innovative. I Crystal Castles puntano tutto su un’elettronica oscura e spaventevole che, seppur quasi ballabile, difficilmente, con tanta oscurità “in ballo”, troverà spazio nei dj-set e nelle feste più colorate. Per dire, vi ricordate “Mr Kirk’s Nightmare” dei 4hero (quel pezzo dance in cui si sentiva la voce di un poliziotto che avvertiva questo sig. Kirk che suo figlio era morto perché aveva preso delle droghe in una gaia notte brava)? Esempio magistrale è “Year of Silence”, remix dark di un gioiosissimo brano dei Sigur Rós (“Inní mér syngur vitleysingur”) nel quale la voce da putto di Jónsi Birgisson si trasforma in un’inquietante nenia da mamma zombie che culla la sua bestiola. Che cosa dire, poi, dei battiti industrial, rimbalzanti e avvolgenti, adornati da un cantato dream-pop (sempre lo-fi e incomprensibile, proveniente dalle profondità di un pozzo) di “Empathy” e “Fainting Spells”? E ancora, fra strazianti urla su base anfetaminica (“Doe Deer”), versi opprimenti di “Birds” di un altro pianeta, techno scampanellante da headbanging lento e sexy (“Vietnam”), i Crystal Castles trovano pure il tempo di accarezzare le mode per scoprire le sonorità sbilenche, molli e ubriache del cosiddetto pop ipnagogico, ma lo stropicciano in chiave dark wave tanto da farmi inventare un neologismo: Pop Ipnagotico (NME mi fa una pippa… ok, fucilatemi).
E dopo esserti ingollato ‘sto gran calderone melmoso ti domandi “ma che cacchio ho ascoltato?”. In effetti, a un primo ascolto è difficile ricordare qualche pezzo in particolare. Come ho detto prima s’è persa molta dell’immediatezza dei pezzi che furono, però c’è da dire che quel che rimane è assimilabile per certi versi al sapore schifoso di nicotina dopo che si piazza in bocca dopo aver fumato una sigaretta: è disgustoso e quasi ti fa pentire di avere quel vizio orribile, però, inevitabilmente, appena se ne va via ti viene voglia di riprovarlo. Ecco, i Crystal Castles del 2010, sono così: fumosi, imprevedibili, disturbanti e nocivi. Recensendo il primo album avevo detto che si potevano quasi paragonare a grandi band electro, ben più fracassone (Daft Punk, Justice, ecc.). Avevo cannato alla grande. I Crystal Castles stavano puntando a un obiettivo ben diverso, subdolo, misterioso, sgusciante… insomma, boh.
Insomma, come la stragrande maggioranza degli artisti figli di questi anni ‘00, non si capisce dove vogliano andare a parare. Ma, fintanto che lo fanno così bene, a noi va bene così.
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