Quei quattro mascalzoni mi plagiarono quando ero piccolo, indifeso. A dieci anni mi chiedevo che diavolo ci facessero a bordo di quella Pontiac in mezzo al deserto, non capivo proprio perché quella canzone continuasse a girare su Mtv. Poi li rividi alcuni mesi dopo, erano dentro un videogioco ed era divertente riscoprire ogni volta l'esito di quella partita tanto assurda.

Fu un rito iniziatico breve, incompiuto: non era ancora tempo di rock, in casa dei miei non esistevano dischi di quel genere. La scoperta fu, come spesso accade, a posteriori. Quando ero in terza media comparve un nuovo video (un tassista pazzoide rapiva il cantante) e allora ricollegai. Nacque così l'amore, come una forma di ricomposizione più ragionata, seppur adolescenziale, d'una fascinazione fanciullesca.

Ben presto fu ossessione, e una volta posta la prima pietra, il passaggio logico successivo fu espandere gli orizzonti, conoscere. Radiohead, Pink Floyd, Clash: gli anni del liceo, la lettura di riviste e recensioni online (la scoperta di Debaser), la voglia di emulare e la scrittura dei miei primi articoli. Un florilegio di canzoni, chitarre, dischi acquistati a scatola chiusa alla Ricordi in duomo.

Nel 2006, al disco successivo, ero un ragazzo magari un po' spocchioso, in pochi anni avevo fatto indigestione di musica. Rispetto alla fiducia fideistica del ragazzino, covavo ormai una vena critica differente, ma che sapevo far tacere di fronte a una passione così carnale. Il concerto al Forum di Milano fu bellissimo, ero a pochi metri da Frusciante. Disperata gioia di vivere.

Poi basta, o quasi. Nel 2009 celebrai il funerale della band, di fronte al secondo addio di John. Un ultimo vagito, quasi postumo, nel 2011: il disco girava nello stereo in macchina e piaceva parecchio alla mia morosa del tempo. Un compromesso. Ma era come infierire su un cadavere, o peggio andarci a letto. Intanto i miei panorami sonori si allontanavano, mi teneva legato a loro solamente quel grumo di ricordi e sensazioni di ragazzo (e non è propriamente poco).

Nel 2019 il ritorno di Frusciante ha sconvolto le prospettive di tanti fan o ex, ormai dormienti o quasi. È stata l'occasione per rispolverare qualche brano e ascoltando oggi con maggiore freddezza colgo una felicità compositiva, un acume puramente pop che spiega in modo lampante il loro successo.

Sarebbe ingenuo ora cercare di convincere qualcuno della bontà dell'ultimo disco, non perché effettivamente non sia dignitoso, ma per una certa fama negativa che, a tratti anche meritatamente, si sono conquistati per una fetta di pubblico. E non mi interessa più di tanto smentirne i difetti perché sono evidenti e sacrosanti, ma semplicemente a quest'età (la mia intendo, figurarsi la loro) non c'è più tempo per disquisire e litigare su ciò che non si è, molto meglio valorizzare ciò che si è.

I Red Hot del 2022 sono la versione matura, sintetica, quasi sincretica di loro stessi. I pezzi sembrano collage dei variegati stili che hanno attraversato. Un collage però spontaneo, non una giustapposizione calcolata. Sono brani nati da jam session, altre decine sono già pronti. Canzoni pop, rock, funk, con una spruzzata di jazz, qualche assolo hard, seconde voci alla Beach boys (meno che in passato), divagazioni alla tromba, ballate intime quasi beatlesiane.

Ogni pezzo contiene in sé più anime, spinte contrapposte ma riordinate secondo uno stile compositivo meno manieristico e telefonato rispetto alle ultime uscite con Frusciante. Qui il chitarrista smette i panni del virtuoso accentratore (assoli in numero congruo) e indossa quelli del fine arrangiatore, che sceglie con perizia ogni sfumatura di suono, che alza il riverbero della chitarra o la affila quando è il caso, ma sa anche inserire stacchi di synth e amenità varie, senza l'ossessione di dimostrare quanto è bravo. Questa maturità del chitarrista si riverbera sugli altri tre, che se ne escono con prestazioni dignitosissime, quasi sorprendenti. Un disco saggio, equilibrato, fresco, senza l'ansia di arrivare in cima alla classifica.

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