Formatisi alla fine degli anni '80 a San Francisco, i Red House Painters esprimono in musica l'animo tormentato del loro leader Mark Kozelek. Personaggio complesso ed introverso, ex tossicodipendente, Kozelek riversa nei suoi accordi e nei suoi testi tutto il suo mal di vivere. Poeta di ottima levatura, si serve di un tono dimesso, introverso, pregno di un intimismo commovente. Il suo registro è tenue, il suo canto scivola via lento e abulico, le sue parole sono delicati sussurri.

Agli inizi degli anni '90 la 4AD del grandissimo Ivo Watt Russel (quante meraviglie hanno attraversato la sua etichetta...) li mette sotto contratto. Esce così nel '92 il loro album d' esordio, Down Colorful Hill. La copertina non lascia presagire nulla di buono, ed infatti all'interno troviamo la stessa desolante atmosfera. Sono solo sei brani, ma molto dilatati. Si comincia con "24". Una chitarra emette anemici vagiti prima che il canto si impossessi della scena. Il ritmo inizialmente è assente, poi una flebile batteria comincia a far sentire la sua voce, dando tempo alle preghiere di Kozelek. Tutto è infinitamente rallentato, l'arrangiamento è ridotto all'osso, ma non si ha la minima sensazione di ripetitività. La classe è notevole, l'abilità del gruppo sta nel creare sottili trame sonore che cullano come un'altalena, avvolgendo l' ascoltatore in un clima di meravigliosa rilassatezza.

"Medicine Bottle" è forse il miglior brano del lotto. Dieci minuti di splendido onirismo, di elegante rarefazione, il paesaggio notturno disegnato degli strumenti ipnotizza e seduce fin dal primo ascolto. La marcetta accennata della title-track ci regala un Kozelek meno distaccato dal mondo, la sua voce lascia trasparire un barlume di speranza, un commovente fiato d'emozione, mentre la chitarra ricama note che sembrano fioche luci colorate. Luci che la successiva "Japanese to English" spegne lentamente per poi donare loro nuova vitalità nel suo sviluppo, contraddistinto da un continuo alternarsi di chiaro-scuri.
L'episodio più solare del disco è rappresentato da "Lord Kill The Pain", un bel motivo di folk-rock, semplice ma non banale, che spezza la tensione al momento giusto. Il sipario cala con la dolcissima elegia di "Michael", amico perduto e mai dimenticato. Kozelek questa volta tradisce emozione, il suo però è un dolore non pervaso da funerea disperazione, le sue parole ricordano l'amico quando era in vita, il suo sorriso, i momenti vissuti insieme, nella consapevolezza che una persona tanto cara rimane sempre un po' con noi.

Disco apparentemente facile, in realtà ha bisogno di numerosi ascolti prima di essere apprezzato appieno. Una volta assaporato completamente il suo gusto ci si rende conto di quel capolavoro che è.

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