A.D. 1991 Gli Slint consegnano al rock una verità epocale: per creare quelle atmosfere ampie, cangianti, quasi impressionistiche, quelle nelle quali si ricerca l'eternità e ancor più il non-tempo, quella musica nella quale l'illusorio e fugace brivido del momento viene messo al bando, in favore dell'impatto emotivo evocato da un insieme di immagini fluide, da un flusso musicale che ora ritorna a sé ed ora vive di sottili mutamenti e non dei frenetici spasmi del dinamismo hard rock, insomma tutta quell'idea di musica che racchiudiamo in quella cagata di nome (eppure imprescindibile) di post-rock ha adottato come connotato distintivo, ecco, per creare tutto questo erano sufficienti un basso, una batteria e una chitarra.

Bravi i Talk Talk eh, bravi. Siete tra i gruppi che preferisco e mica mi rimangio la parola data, ma per dare vita a quella mistica spiritualità ascetica jazzy di Laughing Stock avete impiegato sette viole, due violoncelli, due contrabbassi e una discreta squadretta di fiati. Bravi i Dirty Three, Ocean Songs è un disco su cui ho perso i neuroni, ma diavolo non si può parlare dei Dirty Three senza che il primo commento sia "il violino! Quel cazzo di violino!". Bravi anche i Goodspeed You! Black Emperor (che già mi piacciono meno ma tutto sommato mi piacciono), però diamine, siete in otto e non per questo evitate talvolta di scivolare in minuti di noia quasi mortale. E poi oh, nulla da dire sui Sigur Ros, nulla da dire sui Radiohead.

Questi guardano tutti verso lo stesso obiettivo, a mio parere. Dimostrare che la musica "rock" possa produrre quella musica che non cerchi il momento, ma il continuum, e che riesca paradossalmente a vivere con più forza nel momento in cui il brano è volto al termine, perché appena da poco avevano cominciato ad affacciarsi nell'ascoltatore alcune immagini, un po' disordinate, alcune che non si capiscono. Ma quanta fatica che ci mettete. Quanto esasperate i vostri brani... cavoli, i Radiohead hanno creato un mostro con Kid A. Un disco ampio, senza confini, altro dal rock, certo etereo ed impressionistico come dicevo sopra. Ma davvero non si capisce dove Kid A voglia andare a parare, non si capisce se c'è vita dietro quegli oceani elettronici, dietro quelle voci lontane e distorte. Sembrano abbozzi di musica incompiuti, quelli del disco dei Radiohead, impossibile che le canzoni andassero bene così. Musica di grande classe e di enorme profondità emotiva, ma mancano i Radiohead. Nel tentativo di togliere i confini, hanno tolto loro stessi. (Nella mia mente questo è chiarissimo, non so quanto io abbia reso fruibile il mio pensiero con queste frasi)

Il rock è una disciplina che richiede grazia e sprezzatura. Mi pare quasi di vederlo Thom Yorke, che si presenta di fronte al giudizio insindacabile della Musica, tutto tronfio e insuperbito le porge la prima copia di Kid A...
E Musica ascolta imperturbabile e sentenzia: "Un cazzo di disco rock! Un cazzo di disco rock, e per di più melodico! Con questa faccia ti palesi di fronte a me con questo disco? E dove sono finiti i Mozart, i Ligeti, gli Stravinskij? Musica leggera! Questi fanno musica leggera e si atteggiano anche!". E lo stesso per i GY!BE, quante se ne danno i GY!BE.

Poi oh, lungi da me ridimensionare un gruppo che rispetto parecchio come i Radiohead. Tuttavia, Mark Kozelek non farebbe così.
"Avrei fatto questo..." e porge a Musica una copia di "Down Colorful Hill". Come direbbe un rapper romano (non il migliore, ma il MIO rapper romano) "ce vuole umiltà regà. Ce vole umiltà e musica fatta bene..." Down Colorful Hill rappresenta questo. E il disco parla da solo.

L'esordio dei Red House Painters non sacrifica nulla per essere quello che è. "24" vive così tanto da vagheggiare una vecchiaia che infastidisce i piani di una gioventù che sogna il suicidio, e poi fugge in groppa ad una chitarra quasi sorniona, durante l'ultimo minuto. Kozelek (lo abbiamo sentito dire in tutte le salse) in questo disco c'è tutto, non si nasconde dietro secchiate elettroniche: c'è come c'era Nick Drake, mette a tema tutto il suo dramma.


Mark però mette in chiaro, non voglio morire senza di te. In "Medicine Bottle" ci mette cinque minuti a dirlo, dopo che i suoi racconti sulla sua storia sentimentale con una certa giapponese trovavano nelle trame di Anthony Koutsos e Jerry Vessel, essenziali eppure così piene (anche nei silenzi, come nei migliori Slint e Codeine) una delle più indimenticabili vesti degli anni '90: non si può non parlare della sezione ritmica di Medicine Bottle, di quanto soffra e di quanto tuttavia ci creda ancora, fino a tentare quasi un riscatto dopo quei versi, aiutato da una chitarra che si distorce e prova ad emergere, pur trovandosi infine costretta a soccombere nuovamente e ad essere riassorbita nel "flow", che di fatto, consumati i dieci minuti scarsi del brano, si porta via tutto.

Negli undici minuti di "Down Colorful Hill" questa unità si sfalda. La batteria sviluppa una marcetta imperterrita, di un entusiasmo (?) che le affrante chitarra e voce non riescono a seguire. Una delle tracce più fluide dell'album, per quanto sappia ritornare costantemente in sé, tipo flusso di coscienza. "Japanese to English" inaugura una parte di disco dalle composizioni appena più articolate, senza per questo venire meno alla nuda, straziante essenzialità. Il secondo riscatto del disco è qui, ancora a 3/5 del brano circa, con un'improvvisa accensione di chitarra e basso piuttosto melodica e quasi pop, che non si dimentica. La penultima canzone è "Lord Kill The Pain" brillante rincorsa folk concepita volutamente in antitesi con il mood generale del disco (a cui tuttavia fa ritorno in alcuni passaggi, specie alla fine, forse i momenti più interessanti del disco). L'unico brano del disco che io trovi parzialmente fuori posto, senza dubbio quello che trovo meno interessante, pur nella sua assoluta dignità in termini di valore assoluto. "Michael" parla ancora la lingua del folk, ma si lancia in un delicatissimo, commosso epitaffio all'amico scomparso, nella forza dell'innocenza di quelle domande che potrebbe fare anche un bambino: Michael, dove sei?

Dopo "Michael" il primo disco dei Red House Painters termina, ma vive nell'ascoltatore, ancora ben oltre l'ultima nota.

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