I REM, uno dei più celebrati gruppi dell’underground, dalla metà degli anni 80, dedicarono gran parte delle loro energie, più che per lasciare ai posteri buona musica, per lasciare l’underground.

Con “Document” alla fine riuscirono a realizzare il loro obiettivo, superando per la prima volta il milione di copie vendute.

Da molti considerato un capolavoro, “Document” è in realtà solo un buon disco radiofonico, che quasi rinnega la loro essenza, già in parte rinnegata in “Life…”.

L’intro è rock come nell’album precedente: “Finest Worksong”. Questo pezzo, un loro classico, è la canzone-matrice di varie canzoni del disco, ma quasi nessuno dei brani figli (“Strange”, “Exhuming McCarthy”, “Lightin Hopkins”) è all’altezza del genitore – anzi ogni band poco più che mediocre avrebbe potuto scriverli.

Fanno eccezione il bellissimo lento-rock “Oddfellows Local 151” (con un cantato malinconico e un finale di chitarra quasi-feedback davvero notevole) e la buona “Fireplace” (con un bell’assolo di sax nel finale).

Non mancano i pezzi REM vecchio stile, con l’arpeggio folk-rock in sottofondo, che tuttavia risentono dell’aurea di mediocrità che avvolge quasi tutto il disco: “Welcome to the Occupation” e “Disturbance at the Heron House” (con una melodia dilettantesca nelle strofe, ma che recupera sul ritornello). Davvero distanti dai capolavori emozionali dei dischi precedenti.

Gli unici pezzi degni del passato sono “The One I Love” (benché anni luce sotto “Fall on Me”, per citare il capolavoro vecchia scuola del disco precedente) e la graziosa marcia acustica dal cambio malinconico “King of Birds”.

Fortunatamente i REM riescono ancora stupirci con un lampo di genio come “It’s the End of the World” (un capolavoro vocale di Stipe) che, benché accelerato, costituisce uno dei loro massimi risultati, e che sarebbe stato un perfetto intro all’album.

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