L’album è mediocre, do quindi priorità ad una, per quanto possibile, breve storia dei Renaissance, fatta di vicissitudini abbastanza peculiari almeno quanto le musiche di questo gruppo.

Tutto comincia sessant’anni fa dagli Yardbirds, discreta band sessantiana londinese in bilico fra blues e rock’n’roll, insistentemente affezionata al cambio di chitarrista (purché bravo… da Clapton a Beck e infine a Page) intanto che sgomita per arrivare al pieno successo; al punto di fare un’apparizione nel 1966 anche al festival di Sanremo, accolta in maniera sciocca (“gallinacci”) dall’ignorante presentatore Mike Bongiorno.

Nel 1968 cantante e batterista mollano la formazione, lasciando tutto in mano a Jimmy Page (che ci tirerà fuori i Led Zeppelin, e bravo lui), ripudiano il rock blues allora in piena fioritura e si danno al… folk romantico! Pure sinfonico.

Così creano un nuovo schema di canzone folk pop progressive, che con variazioni minori e rare eccezioni si ripeterà poi in buona parte nella loro discografia che conta. Assoldano per l’impresa un pianista classico, di quelli che hanno studiato al Conservatorio con pieni voti, e gli fanno suonare corposi prologhi, eventuali interludi, frequenti finali, insomma corpose e professionali sbrodolate pianistiche per due terzi di canzone, meglio se gonfiate con un’orchestra, se si può. Debussy e i Russi saccheggiati a piene mani, per minuti e minuti.

I due tizi ex-Yardbirds però si stufano quasi subito e mollano pure quest’impresa e, lo credereste? Come i Led Zeppelin dagli Yardbirds, il gruppo risorge dalle ceneri (stavolta senza cambiare nome), riprende vigore con l’innesto di nuovi elementi, e raggiunge nel giro di un paio di dischi un notevole successo. Senza assolutamente cambiare stile.

Tornando alla struttura tipica delle canzoni l’ultimo terzo quello non invaso dal pianoforte, in genere la sezione centrale, vede l’arrivo di… una chitarra acustica! Perché il compositore è il chitarrista, il pianista serve solo a classicheggiare. L’atmosfera si acquieta, si… folkizza e parte il cantato che narra di favole, antichi racconti, lontane epoche, principi e sultani e damigelle. Detto così, pare niente di che, invece no perché la voce è a livello di Belle Arti, Annie Haslam è un usignolo magari un po’ freddo e scarso di soul, ma il pathos che genera il suo timbro eccezionalmente pieno e rotondo e penetrante, oltre che esteso in alto da vera soprano, funziona alla grandissima. Addirittura gli americani s’invaghiscono di queste sonore operette folk dei nostri e per anni il gruppo riempie auditorium con tanto di Filarmoniche dietro di loro a darci dentro di archi e di legni. Un bel successo, dei bei soldi per un abbondante lustro di gloria, più o meno dal 1973 al 1978.

Tutto cambia con l’arrivo degli anni ottanta, con le loro ferree richieste modaiole e commerciali. I Renaissance provano, come tanti, a riciclarsi completamente nella dominante realtà pop/disco/elettronica, ma non ne hanno le radici e soccombono. Nel 1987 sono finiti.

Però finiscono anche gli anni ottanta, e a metà dei novanta il gruppo si ricompatta. Si contano i superstiti, il pianista va cambiato perché depresso, la cantante ha ancora tutte le sue ottave di voce intatte, si può andare e si va per un altro paio di dischi e relativi giri di concerti.

Uno di quei due dischi è questo “Tuscany” (2002), doverosamente copertinato con suggestivo casolare, iconici cipressi e invitante sterrato su per la collina, come Toscana vuole. Ma non funziona: i Renaissance appartengono a quella porzione di Dinosauri del Rock che non è stata capace di riciclarsi mantenendo interesse, freschezza, incisività, qualità nelle nuove canzoni.

Il suono e lo stile ci sono: eccoti il pianista che scorrazza in lungo e in largo, la voce argentina e radiosa di Annie che descrive ampie volute melodiche, un’orchestra che pompa nelle fasi più trionfali, ma fanno difetto le canzoni riuscite, le melodie giuste, i passaggi pregnanti, i momenti indimenticabili che si possano inculcare in testa, almeno al terzo ascolto non dico al primo. Non c’è nulla che faccia schifo anzi, solo che è tutto… superfluo. Già i Renaissance non sono per tutti, ci vuole una dose di inclinazione verso il progressive sopra la media; questi ultimi (o penultimi…, vi è un altro disco più recente, mi pare), non sono quasi più per nessuno… giusto per i loro pochi pasdaran.

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