"Tutto passa, tranne la gloria dei cosacchi"

Renato Pozzetto torna al doppio ruolo di attore regista per questa pellicola del 2007. Il film è tratto dal romanzo "Yono Cho" dello psicologo Vittorino Andreoli, che ha partecipato alla sceneggiatura insieme a Josè Maria Sanchez (dietro alla macchina da presa in "Mollo tutto") e allo stesso Pozzetto.

Il film è ben fatto. Non assume i risvolti di commedia ridanciante tipicamente adattabile al personaggio di Pozzetto, bensì ha una tristissima ed oscura patina drammatica, rappresentata dal senso di solitudine di più personaggi.

Pozzetto è un ingegnere lasciato dalla moglie per la troppa passività nella vita di coppia. La sua vita è stracolma di solitudine e scorre in una triste e consapevole routine, fino a che una ditta giapponese, impersonata da un giovane ed elegante uomo, gli propone un esperimento: testare una donna su misura, che corrisponda a qualsiasi esigenza dei propri clienti. Una donna artificiale, che verrà plasmata appositamente per soddisfare il richiedente sotto ogni punto di vista: assenza di gelosia, corpo da sballo, bellezza perenne, intelligente e socievole, piena di iniziativa e così via. Pozzetto accetta l'esperimento, constatando di essere probabilmente il tipo di cliente a cui l'azienda giapponese immagini di rivolgersi e fa entrare nella sua vita questa meravigliosa proto-donna (Camilla Sjoberg) che rilancia le sue (di lui) "azioni" fisiche, le ambizioni sociali e lavorative e l'immagine in generale. In sostanza la sua vita migliora notevolmente. Peccato però che la cosa degeneri.

Non intendo svelare i successivi passi della storia. Voglio piuttosto dire che questo film mi ha lasciato un senso di amarezza grandissimo. Una volta entrati nell'ottica del personaggio, si intuisce quanto la solitudine abbia logorato ogni suo meccanismo celebrale, spingendolo a rattrappire ogni senso possibile del vivere, lasciando decadere ogni tipo di rapporto, di ambizione lavorativa, persino il capanno da pesca che rappresentava una distrazione. Un uomo finito, che non si ravvede appena ottiene quello che vuole, quello che ha chiesto, ma che continua a logorarsi dentro e soffrire come un cane, affannandosi a recuperare il terreno perso, per poi rendersi conto di non poter gestire se stesso e neppure i propri desideri. Angosciante, per il senso di perdita, per il vuoto pneumatico che finisce per assorbire, come una potente malattia, ogni azione prevista. Il tutto ha risvolti oscuri e tristissimi, ma la tristezza non arriva solo dal personaggio, ma dal senso di ciò che manca di tutti i personaggi che ruotano intorno al protagonista: colleghi insoddisfatti, capo condizionato, la stessa moglie (Anna Galiena) che lascia Pozzetto insistendo sulle sue possibilità di rifarsi una vita, ma che non riesce, o lo stesso Mister S, il dipendente della ditta giapponese, che lamenta sofferenze personali e non riesce ad esprimerle nemmeno quando ne ha modo, assorbito dal lavoro a tal punto da distruggere ogni sua relazione.

Il significante è una dimensione che tutti inseguono e non trovano, permanendo nello stato di insoddisfazione e vuoto che viene colmato con deleteri stratagemmi. Una felicità introvabile, un senso di assurda inutilità e dipendenza da "cose" che non individuiamo in nessun caso. Una bruciante illusione. Una ricerca demotivante che crediamo finisca quando ripetiamo a noi stessi "non vorrei altro", mentendo.

Sorpresa. Pozzetto è il solito, con la sua consueta gestualità, ma il suo ruolo di passivo è toccante e convincente. La storia è ben strutturata, crea tensione e senso di angoscia al punto giusto. Ci sono poi spunti di riflessione su molti altri contesti, come il mondo del lavoro o il rapporto omosessuale (un simpatico Cochi Ponzoni si cimenta in questo ambiguo ruolo condito da ispirata fraternità). Insomma, una buona commedia. Da consigliare agli scettici.

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