“Quando l’uccello si posa su un muro e vede i semi che servono da esca nella trappola, il desiderio lo spinge verso questi semi. Li guarda, poi guarda verso i vasti altipiani. L’uccello che resiste a questa tentazione prende il volo verso gli altipiani, colmo di gioia”.

È un racconto sufi.

Il talentuoso chitarrista Richard Thompson, giovanissimo, coi Fairport Convenction aveva riscritto (vedi “Unhalfbricking” e “Liege And Lief”) le regole del Folk britannico. Ma nel 1971, a poco più di vent’anni, decise di andarsene per intraprendere la via del cantautorato e sviluppare quelle idee in modo personale.

Notevoli le collaborazioni che precedono il suo debutto solista: Nick Drake, John Martyn, John Cale, Sandy Denny, Ian Matthews. Del resto è un chitarrista raffinato, dalla tecnica eccellente. Poi ecco “Henry The Human Fly” (Island, 1972), ove esordiva con un Folk Rock volubile, incostante, barrettiano. Nel frattempo il nostro aveva sposato Linda Peters, inaugurando anche un proficuo sodalizio artistico. Lei era un mezzosoprano, una voce cristallina, incantevole e palpitante.

“I Want To See The Bright Lights Tonight” (Island, 1974), registrato in pochissimo tempo e con un budget esiguo, è già un capolavoro. Alligna quel Folk Revival, fatto di tradizioni popolari, Bob Dylan, Chuck Berry e tanta consapevolezza. Un Rock decisamente chitarristico, circonfuso di un’aurea solennità. Avverso ai sentimentalismi del Pop. Una musica fremente e avventurosa, per metà elettrica, per metà acustica, umbratile, scura e vagamente intellettuale. L’autore dipinge l’affresco suburbano di un’umanità senza prospettive, vittima di un destino avverso, apparentemente incontrovertibile. Un’umanità fatta di mendicanti, alcolizzati, prostitute, ladri, padri violenti, gente rozza e meschina, traditori, invidiosi, solitari, sconfitti, oppressi, madri tormentate e bambini afflitti. Parla con una certa ricorrenza di morte. Pessimismo cosmico? No. Né tanto meno il vuoto nichilismo che molti si ostinano a leggervi. Richard Thompson lamentava sempre quanto i suoi testi fossero sistematicamente fraintesi. Non mancano tracce di compassione, accanto al non saltuario humor nero. Certo è uno scrittore affranto, compunto, fatalista, ma non è il nulla la risposta finale ai suoi salmi laici, che attendono un messianismo paradossale, al di là dal venire, eppure cominciato.

Liriche cupe, ombrose, guidate dalla chitarra elettrica, più l’afflato spirituale del canto di Linda, un “canto dell’innocenza”, complementare al “canto dell’esperienza” di Richard. Un mondo desolato, svilito, sconfortato, ma bello prima della caduta, un “Paradise Lost” miltoniano, quasi a soffrire di una frattura cosmica difficile da ricucire. Eppure si può sperare oltre ogni possibilità. Thompson era un appassionato di William Blake e anche per i piccoli spazzacamini del poeta c’è un riscatto. Così per il bimbo appena nato di “The End Of The Rainbow”, cui la madre trasmette il suo sguardo disilluso (“Non c’è niente alla fine dell’arcobaleno”). L’autore affermava: “c’è sempre un po’ di speranza nel terzo verso delle mie canzoni”. E, alla fine, da queste emerge sempre un senso di pace, inatteso. Thompson si immedesima nei personaggi (un po’ dickensiani) che descrive. Non li giudica. In una atarassia prammatica. Non la misantropia di comodo che gli è stata sovente imputata. E non c’è mai autocommiserazione. Anche la mendicante ha un sua garbata dignità, il solitario non è sconfitto, il bimbo ancora sulla culla non necessariamente guarderà al mondo con gli occhi della madre. Pur non avendo una direzione, un passo è ancora possibile. Fosse solo alimentato da un dubbio. Una liberazione può incombere. Thompson sembra quasi muovere da una sensibilià tardo medioevale. La sua ricerca spirituale, condivisa a lungo con Linda, quindi, è un’altra traccia da seguire. Il sufismo, branca mistica dell’islamismo, cui, di lì a poco aderirà, corrisponde a una richiesta universale di senso. Ecco che la desolazione, l’angoscia non sono più paradigmi della nullificazione. Si attende, quasi non si attende, un avvenimento ulteriore, che sopraggiungerà magari un giorno dopo il suo arrivo.

“When I Get To The Border”, timbri di danze popolari, ma avvolti in una sonata cameristica, anela alle peregrinazioni dell’anima: “La strada impolverata risplende con soavità/ brilla l’oro attraverso i miei passi/…/ mentre vado al mio limitare”.

“Calvary Cross” è un moderno gospel dal passo solenne scandito dagli accordi profondi del piano, un drammatico sermone ove la morte è impersonificata da una fanciulla cerea, la quale intima al protagonista che tutto quello che fa, lo fa per lei. Forte come l’amore è la morte, ribaltando il Cantico dei Cantici. “Un giorno prenderai un treno/ senza mai lasciare la stazione”. Impietosamente, mentre la chitarra elettrica diventa sanguigna, spinosa e tormentante.

The Great Valerio: metafora circense del funambolo, con la folla astante, scalpicciante protagonista. A esaltarlo, a invidiarlo, a desiderarne la rovina. Tutti “funamboli dell’amore”, ”finché il cuore ci diventa come le stagioni” e urla, pascendosi della fatalità dell’attimo, della fragile esistenza. L’ipnotica coda strumentale cita apertamente il minimalismo di Erik Satie.

The End Of The Rainbow è una poco rassicurante ninnananna. “Sento io al posto tuo, piccolo orrore/ morbido al seno di tua madre/ nessun colpo di fortuna c’è dietro all’angolo/ perché tuo padre è un poco di buono/ e crede che tu sia una sciagura/ E tua sorella, non è meglio di una puttana”. “Ma guarda fuori dalla culla/ Guarda i volti vuoti e tristi/ che ti passano accanto lungo la strada/ Tutti corrono a dormire, a immergersi nel sogno./ E ogni stretta di mano amorevole/ è un altro uomo da abbattere/ così il tuo cuore è malato/ soltanto per essersi aperto e ferito”.

“I Want To See The Bright Lights Tonight”, ha una sua bellezza quasi oltraggiosa, evasiva, plastica, ornata da fanfare barocche. “Sono così stanca di lavorare tutti i giorni/ Ora, il fine settimana è arrivato/ Sto per sbarazzarmi dei miei problemi./ Se hai i soldi per il taxi, signore, andrà tutto a posto/ Voglio vedere le luci chiare stasera/ …/ Portami al ballo e tenermi stretta/ Voglio vedere le luci splendere stasera”. Eccelle il cantato di Linda, secco, fragile, nervoso, passionale. Le sue armonie vocali apportano nuove coloriture ipersensibili, naturaliste, piuttosto inedite all’epoca. Qualcuno, su lei, sentenziò: “Canta come se fosse seduta su una bomba ad orologeria”.


The Little Beggar Girl”, un saltarello frenato, quasi una preghiera, un fulgido esempio di folk-rock. La protagonista, Sally, balla intorno alla sua gamba di legno e suona la fisarmonica “Mi piace prendere i soldi di uno snob come te”. Preferisce biblicamente essere ricca dopo che prima, “Se le mie parole feriscono la tua coscienza/ tieni conto che…/ … io sono solo una piccola bambina mendicante”.

We Sing Hallelujah” è un canto da pub, greve e austero.

“Un uomo è come la ruota arrugginita
di un carrello arrugginito
Canta la sua canzone sferragliando a lungo
E poi cade a pezzi

E noi cantiamo hallelujah
Alla fine dell'anno
E lavoriamo tutti i giorni alla vecchia maniera
Finchè appare la stella splendente


Un uomo è come un rovo
Si copre di spine
Ride come un pagliaccio, quando la sorte gli è avversa
E i suoi vestiti sono logori e strappati

Un uomo è come un violino a tre corde
Appeso ad un muro
Suona quando qualcuno raschia il suo arco

Un uomo è come suo padre
Vorrebbe non fosse mai nato...”

Dieci canzoni intense, mature, quasi liturigiche. Nella rimasterizzazione del 2004, anche tre tracce live, del 1975, molto belle. La chitarra si fa trascendentale. Anche bruciante. La modulazione maschile-femminile è fondamentale, l’apporto della Peters conferisce all’opera un presentimento sacrale.

Una nota di merito a Simon Nicol, al dulcimer, e al maestro John Kirkpatrick, all’anglo concertina e all’accordion.

Il successivo album, “Hokey Pokey” si rifarà al Music Hall, con un certo umorismo. Dal 1975, i due coniugi diventano sufisti, completando il percorso spirituale che li aveva legati all’Islam e incidendo “Pour down like silver”, un disco severo e raccolto. Nel 1982, l’altro capolavoro del duo, “Shoot out the Lights” prodotto da John Boyd. Qui cantano la propria relazione giunta mestamente allo sfascio. Il più sofferente è Richard.

Il suo songwriting seguita ininterrotto a tutt’oggi.

Per concludere su “I want to see the bright lights tonight”: in mezzo a tanta desolazione, la morte, la nullificazione, tornando al racconto sufi, sono i semi. Gli orizzonti cui rivolgersi, le luci splendenti, sono da ricercare altrove. Anche percorrendo faticose distanze, all’apparenza amare. Nella casta gioia di mettersi in cammino.

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