Indossare una maschera può essere un modo di spogliarsi. Pronunciare parole altrui può essere la via che conduce a scoprire la propria voce più autentica.
Nel mettere in musica il verso libero, quasi prosastico, dell'Antologia di Spoon River, Richard Buckner deve abbandonare i binari risaputi della canzone d'autore e del folk rock e le maglie strette della loro metrica. Deve vestire nuovi panni e spiegare la sua voce. Farne pennello duttile e agile per ritrarre ora un soliloquio rancorso di giovane donna strappata prematuramente alla vita, ora lo sgomento ricordo degli ultimi istanti di vita di un uomo, assassinato dal giovane amante della moglie. O ancora il pentimento dalla voce tremula di chi, della sua vita, rimpiange ogni azione.
Le prese del fiato non sono quelle cadenzate della ballata, seguono gli umori, le invettive, gli improvvisi ripensamenti di questi morti intenti a scrivere il loro personale epitaffio.
La voce di Buckner guadagna di volta in volta in spessore e in fragilità, in sfumature insomma, laddove in precedenza se ne conosceva solo la bellezza un po' monocorde di un'anima perfettamente aderente alle parole che cantava, da lei stessa scritte. Una bellezza così coerente da incutere timore piuttosto che innamorare.
Si confrontino per esempio il respiro, le nervose venature della voce di Buckner nel passo a cappella dedicato a Ollie Mc Gee, con l'altro brano a cappella inserito nel precedente "Devotion and doubt" dal cantato stentoreo e un po' piatto. O la risonanza drammaturgica che regala al frammmento la cesura improvvisa che nel vuoto strumentale è costituita da una pennata sulle corde dell'acustica. Ollie Mc Gee ha appena finito di raccontare della sua tormentata esistenza, torturata dal marito. Il suono dell'acustica volta pagina e lei può cantare per voce di Buckner, che al tono dolente fin lì tenuto sostituisce un potente e feroce controcanto, di come la pena del marito seguita alla sua morte l'abbia vendicata.
Ma il capolavoro di questa sapiente esegesi in musica è proprio nella scansione dei brani e nell'arrangiamento strumentale. Il disco si presenta come una sola traccia continua. Eppure questa continuità è frutto di un montaggio che non nasconde sè stesso, non sfuma le cesure con dissolvenze incrociate. Recide il tessuto sonoro come una falce recide il grano, come la morte interrompe un'esistenza. L'unica traccia livella le storie individuali, ne suggella il comune destino di dormienti sulla collina di Spoon River. La frammentarietà esibita della traccia enfatizza invece l'unicità di ogni umano percorso.
Se poi guardiamo con attenzione la custodia del disco e scorriamo la lista dei nomi dei personaggi i cui epitaffi sono stati tradotti in musica da Richard Buckner, scopriamo che accanto ai brani cantati che rispettano fedelmente le poesie di Edgar Lee Master, anche gli strumentali intermezzi sono traduzioni esclusivamente musicali di poesie dell'antologia. Impressioni sonore, quasi un pudico ritrarsi della voce dell'interprete di fronte all'immedicabile sofferenza che le parole poetiche descrivono.
Inseguendo la metrica libera e le impennate umorali del cantato di Buckner, i Calexico Joey Burns e John Convertino ricorrono ad una tavolozza di colori scuri e sobri, ma allo stesso tempo nervosi e cangianti. Dove plettro e spazzole costeggiano ombre e abissi con languorosa delicatezza, l'archetto sul basso acustico rimugina il passato, le speranze negate mentre organo e fisarmonica sacralizzano con ossimoro quasi Pasoliniano queste morti così profane. L'ultima parvenza di inferino sdegno si accende invece nelle improvvise fiammate della chitarra elettrica.
Rispetto al deserto dipinto nei dischi dei Giant Sand o dei primi Calexico, il limbo cimiteriale di Spoon River si rivela allora un paesaggio lussureggiante di suoni.
E infatti l'ultimo brano nel quale come un lungo e tortuoso corso d'acqua sfocia questa sentita e risonante poesia sonora è un mare luminoso, una morte vitale come passione amorosa. Canta Buckner, cantano William ed Emily come due moderni Paolo e Francesca improvvisamente pacificati:
there is something about death/like love itself!
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