Una di quelle serate nelle quali ti senti come una ragazza incinta al quinto mese; solo che la voglia non assume i connotati delle patatine fritte con la panna montata, ma del film da vedere. Allora scorri il dito sul piombo stropicciato e dici mentalmente leggendo i titoli “no, no, no, cazzo questo assolutamente no“. E poi eccolo lì albeggiare tra la rugiada mattutina un forse. Un timido e fragile forse che poi, rileggendo la miseria soprastante, diventa un sì da vissero felici e contenti. Giacca al volo, chiavi di casa e via. Al cinema. Con lei, la bella moretta che purtroppo non era proprio quello che speravo che fosse e che invece si è rivelata per quello che temevo potesse essere. Prima e dopo il film un fangoso e dirompente fiume in piena, uno tsunami infinito di consonanti e vocali, una mitragliatrice posta sopra la baia del V Day ed io lì, indifeso e agonizzante, a stringermi le budella mentre le dico un falso “Grazie, è stato bello! Alla prossima”.

Vita.

La regia di Richard J. Lewis (un nome a me sconosciuto) è mediocre soprattutto nel montaggio delle scene che, con tagli netti, toglie ritmo e ossigeno al lavoro spezzettandolo come se gli episodi fossero uniti con sputo senza troppa saliva ed annacquata colla vinilica di Art Attack. Una fotografia complessivamente incolore mentre la trama, sebbene sia palesemente esagerata e pompata, risulta essere accattivante con un’altalena che passa dalla piacente commedia sarcastica e dissacrante a quella sentimentale, per poi fare una repentina capatina anche nel drammatico nei pressi del finale. Spalle di livello, tra le quali spicca Hoffman nei panni di uno spassoso padre senza il minimo senso del pudore, ed un paio di scene capaci di rimanere fisse nel tempo anche a distanza di qualche giorno. Ma se il film, senza spreco di aggettivi altisonanti, è complessivamente gradevole il merito quasi esclusivo è dovuto alla prestazione di Giamatti.

Questo omone con i vispi occhi da camaleonte incastrati in un corpo che prende i contorni della grassa pera incarna il protagonista di questa scapestrata vita. E non crediate sia mica semplice dare una forma a Barney: quello descritto nell'omonimo libro non è un poligono, un triangolo o un quadrato, con sicuri angoli e rette che collegano i vari punti.

E’ un mucchio di ossa, adipe e idee senza senso: un casinaro, un vulcano sarcastico e acido che vive agiatamente di stupidità altrui scrivendo episodi di rivoltante qualità per una cagata pazzesca modello "Beatiful" serie B made in Canada. Non sa, molto probabilmente non vuole, dare una rotta alla sua vita. Ha amici bastardi e libertini: artisti in erba, intellettuali di talento e senza regole con i quali spreme i suoi anni migliori per un succo amaranto che scende tra chili di ghiaccio e scoscesi pendii di cenere. Finché ad un certo punto, forse per scacciare la crisi di mezza età, si incastra con un gran bel paio di tette in un anello nuziale decisamente troppo stretto per il suo stile di vita.

Un’esistenza accomodante non fa proprio per questo sceneggiatore della ditta “Produzioni Assolutamente Inutili” e così, nel giorno del suo matrimonio, scocca un colpo di fulmine di quelli cazzuti ed imprevisti. Capaci di mettere in secondo e terzo piano, là dietro le montagne, tutto il resto. E’ un tipo fortunato Barney, ma non uno di quelli che attende che il fato faccia il suo gioco; per nulla passivo se vuole qualcosa se la prende ed è così che con decisione, stupidità, pazzia e dolcezza riesce a fare centro, tombola, bingo e 13.

Il senso della rece non è quindi prendervi per il culo spacciando questo buon film da 2/3 stelle per un qualcosa che non sarà mai, ma di raccomandarvi il nome di Paul Giamatti. Specie se non lo conoscevate o se, molto peggio, credevate avesse dato il suo meglio in quella mezza porcata di “The Illusionist“.

In “La versione di Barney” potrete apprezzare e toccare con mano il talento di un attore maturo e con i controzebedei che ha tutte le caratteristiche per esplodere e farci godere nei prossimi copioni per anni.

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