Zio Rick, il George Harrison dei Floyd, senza dubbio artefice del fascinoso suono del gruppo in tanti importanti aspetti ad esempio quelli più atmosferici e meditativi, ci manca ormai da più di tre lustri. Mansueto e pigro, fra una moglie e l’altra un giro in barca e l’altro è riuscito a mettere insieme nella sua non lunga vita solo due album da solista e questo è il secondo di essi, anno 1996.
Per niente ambizioso, quieto, forse lievemente depresso egli ebbe la ventura, negli anni novanta, di innamorarsi e poi sposare una donna alle prese con seri disturbi depressivi e questo disco descrive compiutamente la lotta, i successi, le sconfitte relative alla malattia.
La musica scorre a ritmi talvolta moderatamente techno, più spesso letargici, ambientali, sempre visionari ed eleganti, un marchio di fabbrica per una figura zero virtuosa ma estremamente musicale come lui. La metà dei brani è solo strumentale, domina assai l’elettronica anche se lo stuolo di musicisti in carne ed ossa, specialmente chitarristi, è ben presente. Il pianoforte arriva in forze soltanto all’ottavo brano, a metà disco, e comunque non è certo lo strumento principale del progetto, purtroppo.
Tra una moltitudine di cangianti paesaggi melodico/ritmici, a mo’ di colonna sonora di film drammatico o psicotico, ogni tanto si leva la voce pacata e dimessa di Rick, in verità non molto curata in produzione, approssimativa in alcuni passaggi. I rimandi ai Floyd sono ben presenti beninteso quelli dell’ultimo periodo, senza più Roger Waters. In altre parole, l’influenza del modo di sviluppare i cantati dell’amico David Gilmour è sensibile.
Le canzoni sembrano procedere in quieta disperazione, interessanti ma non esattamente memorabili, finché proprio all’ultimo contributo eccoti il capolavoro. Proprio come succede in quel floydiano “The Division Bell” di solo un un paio d’anni prima, con la conclusiva “High Hopes” che sbaraglia in pregio quanto contenuto nei sessanta minuti precedenti, “Breakthrough” si erge nettamente su tutto ciò che viene prima rendendo plausibile, quasi indispensabile il possesso di quest’opera.
Molto si deve all’interpretazione del testo (del tastierista e compositore Anthony Moore) affidata alla povera Sinèad O’Connor. La cantautrice irlandese, già depressa di suo, pare nata per affrontare queste partiture, queste atmosfere, questi testi. La sua voce impareggiabile, fortemente evocativa, vulnerabile e tormentata procede a dare, attraverso le liriche, un filo di speranza alle vicende di una malattia così sordida e crudele. E sono autentici brividi alla schiena, anche perché Rick è al massimo della sua sapienza sonora, unico nel suo genere, veramente.
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