Mentre il presentatore introduceva sul palco l’ospite di prestigio della serata e subito irrompevano le maestose arie di “Arthur”, noi – frenati da una Shooting Star dai sandali zeppati – stavamo entrando in Piazza della Riforma, sudati da far schifo, il cuore a mille.

Breve studio del campo di battaglia, movimenti di trincea, sospiro di sollievo; cinque anni fa mi ero perso gli Yes, magnifici, gratuiti, a venticinque minuti da casa. Mangiarmi anche l’altra mano, no; grazie.

Al pianoforte un uomo un po’ imbolsito, a rivelare un passato recente reso problematico dalla piaga alcolica, con la barba ispida e le sopracciglia che cominciano a raccontare il tempo che scorre. I capelli biondi, ancora lunghi alle spalle, non lasciano tuttavia dubbi su chi sia l’uomo in camicia nera che fronteggia un pianoforte senza spartiti.

Attorno, come prodi scudieri, i bravi musicisti dell’Orchestra della Svizzera Italiana – diretti dal bravo Guy Protheroe, dall’intensa attività concertistica e messosi in luce anche nella direzione di colonne sonore cinematografiche – supportano il mago nei suoi incantesimi sonori, questa volta senza le mille tastiere elettroniche cui ci ha abituato: intorno solo visi rapiti; perfino le nubi cariche di pioggia restano ad ascoltare Re Artù.

Le dita – quelle dita – volavano come tanti anni fa, saltellando più veloci dello sguardo sull’avorio nero e bianco.

L’ottimo e spesso sottovalutato album del 1975 viene condensato e riarrangiato in una suite strumentale che nulla ha da invidiare ad un'overture classica per magnificenza, vivacità, alternanza di bonacce e furie strumentali. La grandiosa “Arthur”, la dolce “Guinevere”, la roboante “Sir Lancelot And The Black Knight” e l’epica “The Last Battle” diventano un unicum di incredibile valore e preziosità esecutiva; il meritevole Coro della Radiotelevisione Svizzera incornicia di un’irresistibile intensità e di una piacevole giovinezza i passaggi chiave: semplicemente spettacolare.

Dopo un delicato ed evocativo brano tratto da “White Rock” del 1977 (che non conoscevo e scopro essere un documentario sonoro delle XII Olimpiadi invernali di Innsbruck dell’anno precedente), è lo stesso Wakeman che, dissetatosi (per fortuna con acqua, ora che i problemi sono finalmente alle spalle), introduce un brano di un album che compose quasi quarant’anni fa; l’estasiato Green Manalishi (che ha seguito coi movimenti del corpo ogni nota dei violini per tutto il concerto) grida, io penso di non farcela.

“Catherine Howard” è, se non la più celebre, forse la più bella delle sei mogli di Enrico VIII (almeno di quelle del biondo tastierista) ed il suo tema delicato rivive sotto l’impulso degli archi e degli ottoni, mentre le percussioni sottolineano i momenti più propriamente progressivi del brano. Meno maestosa dei brani incentrati sulla leggenda del Re di tutti i Britanni, le sei mogli sono tuttavia più eterogenee e memorabili nel loro ergersi a manifesto delle infinite vite di uno strumento – la tastiera elettronica – in grado di segnare un’epoca e ad emblema dell’arte di uno dei suoi massimi conoscitori.

Dopo una sensazionale quanto ormai consueta parentesi Beatlesiana (Wakeman ne è un grandissimo estimatore) in cui ad una lancinante “Eleanor Rigby” viene legata una spiazzante “Help!” (difficile immaginare un brano dei Fab Four meno orchestrabile; eppure il mago vi è riuscito, affidando ai violini l’acuto grido di aiuto), è il tempo di una delle vette artistiche del musicista inglese.

“Merlin The Magician” (intuibile l’album di provenienza) è un capolavoro, con la sua alternanza di sentori gotici, ariosi temi malinconici e furiose battaglie a suon di incantesimi che l’orchestra riesce a ricreare in una sua personalissima interpretazione: l’emozione è forte; eppure dovrà crescere ancora.

Wakeman introduce, infatti, un “breve” estratto del suo secondo, immane album, “Journey To The Centre Of The Earth”, spettacolo creato per un tour di grande consenso e registrato dal vivo nel gennaio del ’74.

Per venti minuti non vola una mosca. Wakeman non si concede una pausa; nonostante le mani appesantite, le sue dita sembrano animate di vita propria; sembrerò forse inopportuno, e me ne scuso, ma vedendolo mi è venuto in mente un grande come Petrucciani, che sui tasti d’avorio ha vinto, finché ha potuto, le sue menomazioni ed i suoi tormenti – certo infinitamente più grandi.

L’orchestra è perfetta; l’arpa è un delicato cesellamento, i violini ispide rasoiate (immancabile la ripresa di “Hall of the Mountain King” di Grieg), i timpani roboanti cavalcate. Il coro incanta con le sue vocalità, gravi voci maschili ed incanti femminili da pelle d’oca; io non riesco a tenere le dita ferme e lo sterno, le braccia, le gambe divengono tastiere improvvisate; meraviglioso.

Quel che è venuto dopo – il saluto al pubblico, il ritorno sul palco per un ultimo furioso e sensazionale brano, l’applauso scrosciante, il grido di difesa dell’Orchestra della Svizzera Italiana che lotta per sopravvivere, la toccata-e-fuga nel backstage, l’autografo su un foglio improvvisato (perché ricordarmi di prendere le sei mogli da casa sarebbe stato troppo bello), la stretta di quella mano destra – è stato una sorta di inevitabile percorso già scritto, di piccolo sogno forse già previsto nel destino di una bella giornata, in una sequenza di frenesia strumentale dapprima e di calma estasiata poi rispettata nelle sue parti nemmeno fosse stata per davvero per davvero scritta.

Una foto mi garantisce che è successo davvero, che ho visto dal vivo il mago.

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