Quando parliamo dei Ride parliamo di una delle band più importanti e seminali di sempre per ciò che riguarda il genere shoegaze. Definiti così (shoegazer) perché passavano gran parte del tempo sul palco, guardando in basso, alle pedaliere delle chitarre, alla ricerca dell'effetto voluto.
Formatisi nel 1988 a Oxford, i Ride sono stati sin da subito il fiore all’occhiello della Creation Records assieme a My Bloody Valentine e Primal Scream, ben prima che arrivassero gli Oasis.
Agli esordi contribuirono a definire questo genere con un sound caratterizzato da robuste chitarre distorte, una potente architettura ritmica e un’indole psichedelica con un gusto più brit (quasi) pop, rispetto ai colleghi. Dopo la reunion del 2014 hanno continuato ad evolversi attraverso cambiamenti stilistici e sperimentazioni.
"Interplay" è il loro settimo album in studio e il terzo da quando si sono riuniti, è di grande impatto sonoro ed è anche ispirato al synth pop degli anni 80; per stessa ammissione di Gardener (chitarrista e co-leader del gruppo assieme ad Andy Bell): “Invecchiando si diventa un po’ nostalgici ed è naturale rivolgersi anche alla musica che ascoltavamo quando eravamo teenager, come riferimenti del nuovo album mi vengono in mente i Tears for Fears, ma anche i Depeche Mode”.
"Interplay" è un compendio di come si può fare musica indie nel 2024 senza risultare bolliti, nostalgici o banali. Chitarre che si inerpicano in alto ("Midnight Rider"), pezzi power pop ("Monaco"), tastiere e sound new wave anni 80, atmosfere dark ("I Came to see the Wrek") e space ballad ("Light in a Quiet Room" e la masterpiece "Last Night I Went Somewhere to Dream") che ricordano da vicino gli Spiritualized.
Un disco che mi fa ricordare perché amo la musica, perché amo questo genere e perché è giusto continuare a cercare.
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