Ormai Ridley Scott è uno dei cineasti più bistrattati di Hollywood, almeno dalla critica. Eppure anche i suoi ultimi film, per quanto non straordinari, dei minimi segni di solidità li avevano mostrati. Per quanto riguarda questo nuovo Alien, era come implicito da tempo che per la critica sarebbe stata una mezza ciofeca, mentre i fan più accaniti avrebbero goduto di nuove sequenze tipiche del franchise. A mio modo di vedere, la pellicola smentisce entrambe queste previsioni.

Alien: Covenant è palesemente un film con delle ingenuità, ma io sono uscito dalla sala pienamente soddisfatto. Spieghiamo subito, e ridimensioniamo, le criticità: è ovvio che se fai un film che riporta la parola Alien nel titolo, un po’ di scene con mostri che escono dalla pancia delle persone dovrai farle. È la normale sintassi cinematografica della saga, non si può farne a meno. Da qui a dire che Covenant è un rifacimento manierista di cose già viste ce ne passa. Sulla prevedibilità: è chiaro che essendoci una tetralogia che segue cronologicamente questa, lo Xenomorfo riuscirà a sopravvivere. Ma tutto il resto è da scoprire, e mi pare che Scott e gli sceneggiatori (bravi) ci mettano non poco per costruire uno scenario interessante, profondamente inquietante, pieno di filosofia e riferimenti religioso-antropologici.

La cosa infatti più sorprendete di Covenant è che la paura, il terrore, non arriva tanto per le sequenze di morte, di massacro, di orrore. Quelle sono interiorizzate da parte del pubblico. Qui il terrore è diverso, è concettuale. Senza rivelare troppo, il nucleo tematico del film è costituito da una riflessione sull’essere una divinità, sul poter creare. E la questione si riverbera in tanti giochi e richiami tra i tanti creatori (tanti Prometeo) e le tante creature che si ribellano ai loro padri. Il filo rosso unisce tutte le premesse del film del 2012 agli sviluppi di questo, riabilitando ulteriormente Prometheus e accrescendone la portata filosofica con Covenant.

Quanto la creazione è un atto di amore e quanto invece è un atto di egoismo narcisistico? E quanto il creato accetterà la superiorità ontologica del creatore? Ovviamente, come nella migliore tradizione della saga, gli spunti possono essere passibili di letture attualizzanti, in questo caso riferite al rapporto nel corso della storia tra uomo e dio. Un secondo spunto interessante è la debolezza insita nell’umanità, nelle scelte che l’uomo compie sulla scorta dei suoi sentimenti. Per quanto a volte i personaggi siano un po’ troppo imbranati, ciò che rende tematizzabili i vari comportamenti ed errori dei protagonisti è questo continuo ritorno di scelte a bivio: puntualmente viene data la priorità al sentimento, all’emozione, al desiderio di essere apprezzati e riconosciuti come amichevoli dai propri simili. Ma un dio, se vuole essere tale, deve essere solo.

Parlando invece della componente più estetica, ho trovato davvero suggestive e raggelanti le parti prive di sangue, quando il protagonista negativo del film enuncia le sue teorie, le sue ambizioni. L’orrore è dato in modo paradossale sia dal suo essere troppo umano ma al contempo privo di morale: e la sua creazione ne è la prova. Un dio è tale solo perché creatore oppure deve avere un fondamento morale? Esiste davvero un discrimine di questo tipo o ogni creatura, come ogni figlio, merita amore solo in quanto tale? Il pianeta su cui si svolge gran parte dell’azione è perfetto per creare la suggestione cosmologica, per suggerire una solitudine senza rimorsi, terrificante. L’orrore è davvero tutto interiore e amplificato dalle atmosfere nere pece.

La violenza, le sparatorie, le cacce all’uomo, arrivano come un surplus rispetto al cuore concettuale del film. E sono dignitose, perché circoscritte a fasi limitate e perché spesso differenziate rispetto all’immaginario di Alien. Inutile puntare sull’oscurità, sul non sapere da dove arriverà lo Xenomorfo. Sono stratagemmi già ampiamente sfruttati. E allora qui il duello si fa spettacolare, fin troppo, richiamando alcuni passaggi un po’ eccessivi di The Martian. I momenti più tipici ci sono, ma sono passaggi necessari e circoscritti. Nella parte finale c’è un tentativo, un po’ tardivo, di rinfrescare questi tasselli con trovate apprezzabili quali l’assunzione del punto di vista dell’alieno oppure l’uso di musiche del tutto dissonanti. Questo per enfatizzare l’ovvietà di certi sviluppi: «Ti mostro questa cosa, so che sapevi che sarebbe andata così, ma prendiamoci due minuti per guardarla insieme. È divertente no?».

Ci sono tante altre finezze che non ha senso anticipare qui, ma danno una grande mano nell’ispessire la solidità del film. Certo, rimane il problema non marginale che i protagonisti si comportano spesso come dei perfetti idioti. Ma bisogna anche tenere presente che l’equipaggio è ignaro di tutto. Non lo spettatore, e per questo Ridley ha lavorato direi bene per proporre diverse variazioni e approfondimenti.

C’è anche la questione personaggi: se la Daniels di Katherine Waterston è troppo debitrice della Ripley di Sigourney Weaver (ma gli occhioni impauriti sono tutti suoi), abbiamo qui un Fassbender forse in una delle sue prove più alte di sempre. Non rivelo il perché, ma davvero c’è di che compiacersi. Anche i personaggi della Covenant hanno una loro minima dignità narrativa, c’è un po’ di spazio per molti di essi e questo aiuta la dimensione emotiva, che innegabilmente fa un po’ fatica a decollare. Non esente da difetti, certamente, ma pienamente convincente nella costruzione concettuale. Un horror meno di genere e più d’autore.

7/10

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