Siamo nel 1992, ed il grande Robert Altman viene da un decennio (gli anni 80) non così clamorosi/fruttuosi come i suoi anni 70.

Non dico che il genio di Kansas City si fosse arenato - negli 80 - ma a causa di divergenze d’opinioni con le Major, si dedicò più che altro a produzioni teatrali a basso costo.

Ma nei 90 (decennio di rinascita generale del cinema americano e a parer mio una delle decadi più interessanti del XX° sec.) Altman rientra in grande stile e lo fa con un film straordinario: The Player (I Protagonisti).

Con il successivo Short Cuts (America Oggi) del 93 costituirà un granitico dittico sul cinema e l’America, sulle sue contraddizioni, la sua gloria ed il suo marciume, che farà scuola (in breve tempo divennero due classici).

I Protagonisti, sulle prime potrebbe sembrare un omaggio, un inno al cinema e ad Hollywood, per certi versi è così.

Si prenda a tal proposito l’inizio: 8 minuti di piano sequenza, con gli attori che, negli studios, passeggiano, parlottano, gli sceneggiatori buttano giù soggetti a voce al produttore e così via.

Una lunga carrellata di quel mondo, ed in quelle conversazioni parlano di cinema, ovviamente, di piani sequenza (ricordi il celeberrimo piano sequenza dell’infernale Quinlain?) proprio mentre loro, gli attori, sono a loro volta all’interno di un film in un lungo piano sequenza. Insomma è tutto un gigioneggiare e darsi di gomito (in salsa barbecul, occhio che Altman te pia per cul!).

Il cinema che fa bella mostra di sè, dunque, che fagocita se stesso, lo digerisce e lo ri-sputa, in un gioco di specchi prismatico, cangiante, irrequieto ed impetuoso. Altro marchio di fabbrica del nostro è l’Overlapping, ovvero la tecnica di sovrapposizione delle voci degli attori, una scelta scomoda nel cinema, per via della difficoltà che si ha nel seguire dialoghi iniziati a metà, che non iniziano e non finiscono, tecnica in cui Altman, Cassavetes e Allen, giusto per citare 3 pezzi grossi, furono pionieri e maestri.

65 attori che interpretano se stessi, una roba mai vista, diretti in modo magistrale da un formidabile direttore d’orchestra, agli inizi degli anni 90, con alcune superstars al massimo della popolarità (Bruce Willis e Julia Roberts, giusto per citarne un paio).

Il protagonista è Tim Robbins, in stato di grazia, vinse la Palma d’Oro a Cannes, per la migliore interpretazione maschile. Il film vinse anche la Palma d’Oro come miglior regia. L’anno successivo Altman vincerà il Leone d’Oro per il miglior film (America Oggi). Considerando che nel 1970 vinse la Palma d’Oro con M.A.S.H. e nel 1976 vinse l’Orso d’Oro a Berlino per il suo Buffalo Bill e gli indiani, ecco che Robert Altman detiene un record singolare: è l’unico ad aver fatto il triplete nei 3 festival del cinema d’Europa più importanti e prestigiosi al mondo.

Griffin Mill (Tim Robbins) è un produttore, potente, ricco e riverito, ai vertici di una compagnia cinematografica.

Un giorno Mill inizia a ricevere delle lettere anonime che lo minacciano di morte. Indagando risale a David Kahane, uno sceneggiatore a cui mesi prima aveva promesso una chiamata, mai effettuata. Lo cerca e la ragazza di Kahane, June Gudmundsdottir, racconta a Mill che Kahane è in un teatro a Pasadena. Lo trova qui mentre guarda Ladri di biciclette. Griffin cerca di ammorbidirlo, ma lo scrittore non sta al gioco. Tra i due scoppia una lite e lo sceneggiatore viene ucciso. Mill poi sistema la scena per farlo sembrare una rapina fallita…

Un thriller dunque, ma si badi bene che la storia è solo una cornice, una bellissima cornice dorata - chi dice di no - ma il film (nel film del film sul film) cioè il quadro d’insieme, è un po’ quello che ho scritto prima. Omaggio al cinema ma soprattutto critica a quel mondo, il suo mondo, quel mondo di sorrisi di plastica, di lingue velenose, di apparenza che non inganna più, ma è essa stessa inganno. Quel cinema che, ormai da tempo, non è più solo “arte” ma è soprattutto business, commercio, moneymoneymoney. Ed in nome del dio denaro, l’arte si piega, si modella, si trasfigura, si appiattisce, si adegua… e quindi via il finale triste, mettiamo l’happy ending e chiamiamo quelle due star, sarà un successo sicuro… e ne I Protagonisti anche il soggetto si mangia il soggetto lo digerisce e lo ri-sputa in un gioco circolare di Anvedi! Accipicchia! Uuuh hai capitooo? (vedere per credere e per capire sta puttanata cripto-criptica che ho testè enunciato… e che te lo dico a fare!).

Altman mette a nudo tutte le storture e le contraddizioni del jet-set e lo fa utilizzando l’arte della commedia, della satira, ridicolizzando impietosamente Hollywood e la sua band. E si ride, a volte parecchio, si va sul comico (bel colpo Robert) ma si sorride anche, spesso amaramente.

Ne I Protagonisti, si colgono certe dinamiche, battute, modi di dire, modi di essere, o meglio, di apparire, che diverranno clichè nei 90 (che ha fatto scuola l’ho già detto).

E nel finale, il nostro, si permette di chiosare con un tocco alla Lubitsch (invero telefonato, secondo me Altman ha voluto bonariamente raggirare il pubblico) che, inevitabilmente, ha “acceso” gli spettatori in sala, i quali, avendo colto, hanno risposto coi loro gridolini e risatelle argute di approvazione…

E nel loro mondo fatato e plasticoso, i protagonisti la faranno franca, si credono potenti e gli va bene, disse un Maestro…

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