“Desideriamo rendere noto che la perdita del nostro caro amico e il profondo senso di rispetto che nutriamo verso la sua famiglia ci hanno portato a decidere - in completa armonia tra noi ed il nostro manager - che non possiamo continuare come eravamo” (4 dicembre 1980)

Questa la dichiarazione stampa che poneva fine ai Led Zeppelin a seguito della morte di John Henry Bonham. Dietro a queste parole ufficiali ci sono sentimenti difficili da capire soprattutto dove girano tanti soldi: un legame stretto e solidissimo tra i quattro, un rispetto immenso per il musicista e la persona, un’alchimia dal punto di vista umano e musicale tale che se toglievi uno dei quattro tutto sarebbe cambiato e, soprattutto, una grande amicizia. Chiunque altro (e tutte le altre band, ne sono la dimostrazione, avrebbero continuato cambiando batterista, facendo dischi e concerti e incassando soldi - alla faccia del “taccagno” Page - vedi “The Who” con quello che considero un vero oltraggio a Keith Moon).

E l’amicizia era, prima di tutti, da parte di Plant. Perché questi due ragazzi, coetanei, si conoscevano da prima dei Led Zeppelin. Entrambi facevano parte, ancora ragazzini, di quella scena della metà degli anni sessanta del Black Country, l’area delle Midlands e di Birmingham in particolare. Qui Robert e John avevano suonato in molte band e si erano trovati insieme sia nei “The Crawling King Snakes” che nella “Band of Joy”. E fu Robert a raccomandare a Page il suo amico John Bonham come batterista per i “New Yarbirds”.

Come è strano il destino; dopo tante band e alcuni 45 giri completamente ignorati, Robert era decisamente demotivato. Si era dato una “scadenza” del tipo “se entro i vent’anni non riesco ad avere un minimo di successo mollo tutto” e la “scadenza” ormai era prossima.

Già, come è strano il destino; Page aveva contattato per il posto di frontman della nuova band nomi già importanti come Mariott e Winwood che però erano già impegnati. Quindi contattò un diciottenne promettente cantante, Terry Reid, che “dovette” rifiutare perché aveva appena firmato un contratto come solista. Reid però aveva conosciuto Plant pochi mesi prima e lo raccomandò a Page. Così Page e Grant andarono a vedere Plant con la sua ultima band, gli “Hobbstweedle”, in concerto in un cadente collegio per insegnanti vicino Birmingham. Scatta il colpo di fulmine in Pagey “Il solo ascoltarlo mi innervosiva” dirà in seguito “ancora adesso mi accade; è come fosse un gemito primordiale”.

Come è bello il destino; Robert stava per compiere vent’anni in quei giorni e, dalla possibilità concreta di mollare tutto, si trova invece a far parte della band dall’inizio più fulminante della storia del Rock. Lui e Bonzo, in poco più di un anno, dai pub di Birmingham a star internazionali sul dorato tetto del rock’n’roll.

Gli ultimi anni di Robert erano stati tremendi: dal terribile incidente in auto in Grecia, alla drammatica morte del figlio Karac. Queste tragedie in mezzo ad una vita on the road, nella rock band più importante del periodo con tutti i deliri di onnipotenza annessi, attraversando i più diversi stati d’animo: esaltazione e depressione, eccitazione e voglia d scappare da tutto e tutti. Dodici anni di una intensità unica. La morte dell’amico è l’ultima mazzata. Grant e Page (in condizioni psicofisiche decisamente al limite) mollano tutto, Jones si rinchiude nella sua quiete famigliare.

Per Robert la perdita dell’amico è insopportabile. Si ritira con la famiglia nelle sue Midlands senza porsi obiettivi. Lentamente riaffiora la voglia di cantare, ma doveva farlo tagliando i ponti con il suo grandioso, ingombrante passato, ripudiando lo status di rockstar; con un pulmino e alcuni musicisti blues del posto comincia a girare per piccoli concerti. Grande Uomo!

Io però tutto ciò durante gli anni ottanta non lo sapevo. Avevo appena “conosciuto” il mio amore musicale e questo che fa?! Comincia una carriera solista denigrando il passato (questo era quello che volevo vedere io ovviamente). Non faceva canzoni della band e rifiutava a priori ogni possibilità di reunion.

Gli anni passano, l’intolleranza adolescenziale finisce, quella caratteriale si attenua e finalmente capisco Robert. E lo ringrazio da tanti anni, per la persona che si è dimostrata nelle più diverse situazioni. Il Plant post Zeppelin è una persona molto umile, alla mano, generosa e altruista all’inverosimile; l’opposto della rockstar inarrivabile, “giustamente” arrogante e piena di se, di quel semidio biondo con i riccioli e i pantaloni attillati con il pacco bene in mostra per le nobili fanciulle. Le situazioni cambiano e le persone intelligenti si adeguano con naturalezza ai cambiamenti.

Queste sono le qualità che riconosco maggiormente alla carriera del Robert. Non sono mai impazzito per nessuno dei suoi album sia chiaro anzi, nel suo primo decennio vi sono anche parecchie pacchianate in perfetto “stile” anni ottanta (persino il look è ridicolo).

Ma non è facile volere liberarsi da qualcosa che hai fatto è che è più grande di te. Il suo “lasciate stare i Led Zeppelin, io sono Robert Plant” era molto più facile a dirsi che a farsi.

Dopo questo lungo periodo Robert, a mio parere, è cresciuto tantissimo come uomo e come artista. Proprio quando ha capito che potevano coesistere sia il frontman dei Led Zeppelin che il Robert Plant solista ha fatto le cose più belle ed interessanti; il ritrovarsi (in tutti i sensi) con Pagey negli anni novanta, il riproporre anche le canzoni dei Led Zeppelin e le tante collaborazioni con gli artisti più differenti e per i progetti più diversi.

Da quando non si preoccupa più di spogliarsi del mito che è stato e per il quale verrà sempre, prima di tutto ricordato, Robert ha una serenità visibile, una voglia e un piacere di suonare superiore a quello di un ragazzo e soprattutto tante idee. Robert ha quasi settant’anni e non possiamo certo pretendere che la sua voce sia quella degli anni settanta; Plant però ora interpreta in modo diverso ogni singolo brano, ora è lui ad usare la sua voce come vuole e si sente di fare... forse una volta era la voce ad utilizzare lui.

Classe e fascino: queste le due parole che più danno il senso a ciò che penso di “Carry Fire”.

Un album bellissimo nel quale in ogni momento questi due sostantivi ci stanno a pennello.

Troviamo l’impronta indelebile di quanto Robert sia legato al folk e alla musica etnica.

Lui è Page già ai tempi dei Led Zeppelin erano affascinanti da questi suoni, i viaggi in Marocco e in India per studiare la musica e suonare con musicisti autoctoni sono famosi e per quanto riguarda il folk non serve precisare nulla, basta conoscere la band. Page amava descrivere come la “CIA” i suoi interessi Celtici, Indiani e Asiatici (e io aggiungo Africani) ed è per questo che si incavolava quando lo rinchiudevano dentro al cerchio ristretto dell’hard rock o del blues.

Ovvio che però nei Led Zeppelin tutto ciò era sovrastato (quasi) sempre dal rock impetuoso. Se prendiamo “Kashmir” o “The Battle Of Evermore” ecco che abbiamo un idea di tutto.

Un disco rock folk in tutte le sue sfumature geografiche (gallese, celtico, americano, africano e asiatico) con un po’ di blues e di Country e con un’atmosfera che a volte è più etnica e a volte più americana. Un folk attivo, di movimento, persino psichedelico in certi momenti, un suono che ti sorprende (quasi) ad ogni brano con un gusto per la sperimentazione leggera, senza eccessi pacchiani.

Tanta classe dicevo, con la sua voce che ci avvolge, sussurrando a volte più che cantando con l’intensità che sempre ho mostrato. Robert è vecchio, è diventato saggio ed è in pace con se stesso e la sua magnifica voce sembra aver seguito lo stesso percorso.

Non ci sono brani che spiccano vistosamente, l’album è un piacevole puzzle che va ascoltato interamente. Non c’è una hit che da sola valga tanto come l’intero percorso del disco.

E così ad ognuno, ancor più del solito, possono piacere brani diversi. Io posso citare l’iniziale mantra rock etnico (mah, inventato qui) con la sua voce caldissima di “The Mary Queen”, la dolcissima “Season’s Song”, l’orientaleggiante title track, le chitarre e l’incedere ritmico di “New World”, il blues particolare di “Carning Up The World Again” con una voce “vecchi tempi” e la rivisitazione di un brano anni cinquanta “Bluebirds Over The Mountain” dove melodia e atmosfera si fondono alla perfezione, con ospite Chrissie Hynde.

Il tutto con i “Sensational Space Shifters” che accompagnano egregiamente.

Un viaggio in giro per il mondo, nei posti più diversi, è li che ci porta Robert. Un (quasi) settantenne che ci offre un album di estrema bellezza e soprattutto, cosa rara, con tante idee.

Un grandissimo che potrebbe vivere di rendita senza “preoccuparsi” di farci avere nuove cose ed invece ha l’anima leggera e riesce, con naturalezza, a donarci queste prestigiose chicche.

Come dicevo?! Classe e fascino appunto.

Grazie Robert, l’hippy, il “peace and love” dei Led Zeppelin, come mi è sempre piaciuto chiamarti; vederti sereno e felice è una cosa stupenda.

Carico i commenti... con calma