Che Roberto Angelini sia un bravo ragazzo è fuor di dubbio. Magari non proprio uno di quelli casa e chiesa, e non metterei la mano sul fuoco di vederlo un giorno aiutare una vecchietta ad attraversare la strada. Sia come sia, visto da fuori Angelini appare un tipo introverso, belloccio il giusto, tenebroso come ci appare nella copertina di questo album. Sincero soprattutto, di quella sincerità che a volte fa spavento e a cui non siamo più abituati. Perché uno che butta giù Sulla sponda del fiume così, senza riguardo alcuno verso rime o orpelli linguistici fini a sé stessi, non può che avere tutta la mia stima e i miei apprezzamenti.

Ma si sa, la sincerità è pur sempre un arma a doppio taglio: mi appare infatti chiaro come in questo caso il chitarrista romano l'abbia fatta, come si dice...fuori dal vaso.

Angelini è stato un ottimo allievo: si è laureato con i professori Silvestri - Gazzé - Fabi, e il relatore è stato l'ultimo. Da lui ricava gran parte della sua poetica, dai suoi arrangiamenti plasma una visione della forma canzone che negli ultimi tempi guarda verso una semplicità elettronica soffusa ed elegante, appena sbertucciata dalla ritmica che spesso richiama la d'n'b dei tempi d'oro. Tuttavia, per quanto Angelini segua saggiamente la sua strada, spesso impervia - i suoi live solistici sono sempre tappe di una ricerca personale che per il momento non sembra vedere la fine - rimane sempre uno stacco netto tra lui e il suo mentore, vuoi per l'esperienza che li separa, vuoi per l'innata dolcezza che è da sempre marchio di fabbrica del capellone Fabi.

Così, dopo l'ottima prova della "Vista Concessa", onestamente mi sembra che Angelini abbia perso un po' la bussola. E non erano certo beneaguranti nemmeno le dichiarazioni che anticipavano l'uscita del disco: una collezione di suoni in libertà, si diceva, non più imbrigliati dalle catene della forma canzone e ora finalmente usciti fuori dalla mente del cantautore. Che è un po' la metafora di quanto realmente successe a Phineas Gage, un ferroviere che si vide letteralmente trapassato da una sbarra e dopo l'incidente si ritrovò a vivere i suoi ultimi dodici anni completamente privo di freni inibitori, conducendo la sua esistenza in uno stato di semi-incoscienza. Il sogno di ogni artista insomma.

La canzone pop non può però prescindere dal necessario lavoro di limatura degli spigoli: essa ha bisogno di rispetto per la forma, attenzione e cura nel processo di creazione. Pochissimi si possono permettere di pubblicare dei semplici demo - ad esempio Nick Drake, sarà un caso? - senza risultare sciatti e inconcludenti. Il che (e finisco di girarci intorno) è quanto accade a questo disco: quello che dovrebbe essere il suo punto di forza finisce per essere il difetto peggiore. Non lo salvano i due ottimi brani iniziali, l'incipit strumentale Nella testa di.. e l'ottimo singolo Cenere (evidentemente quella che è rimasta da Vulcano), di cui peraltro mi piace sottolinare il distico più ispirato del disco "chi spegnerà il fuoco che dilaga in me non troverà nient'altro che cenere". Non se poi si allineano episodi più incerti come Felafel, Come sei, Vento e Pioggia, oltre all'imbarazzante Blues senza Mutande che chiude il disco. Angelini è riuscito nell'impresa di oscurare la sua enorme abilità con la sei corde - in questo caso l'accostamento a Drake non è azzardato - evidenziando del disco più i difetti che gli inevitabili pregi: questo è il sapore amarognolo che ci lascia a fine ascolto. Non spiccano i testi e alla fin dei conti anche l'intensità interpretativa risulta insoddisfacente - forse un'errata interpretazione dei canoni che da Drake passano per il Ben Harper dei primi album acustici e arrivano ai tre mentori summenzionati - e ciò che mancano alla fine sono le canzoni degne di essere ricordate.

Incerto dunque fra blues (Black Eyed Dog) e e sperimentazione spicciola da colonna sonora ambient (Gibilterra, Vento e Pioggia) che sa tanto di scappatoia per non scrivere nuovi brani, Angelini sembrava spaesato dopo questa prova. Non deve essere stato un caso che di lì in poi avrebbe preso le mosse la collaborazione con Pier Cortese per il progetto Discoverland, due album di cover decisamente riusciti e di cui mi sento di consigliare l'acquisto. Tornare su binari più rassicuranti è stato un toccasana, perché non sempre scavare nei recessi più profondi dell'anima significa condurre la propria opera con qualità.

Io personalmente resto in attesa della prossima mossa.

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