Personalmente dico fanculo agli i-book. Ci sono neonati che pesano meno di questo tomo e ve lo consiglierei solo per il “pof” che quel chilo abbondante di pagine ben rilegate riesce a regalare quando infine si chiude. Ritengo che per godere appieno dell’opera della quale vi voglio parlare oggi sia necessario dedicargli un‘attenzione tiepidamente costante: se piluccato con troppa parsimonia il rischio di cominciarlo con la caduta delle foglie e terminarlo con i primi germogli in fiore diverrà reale trasformando il lavoro di preciso cucito, un ammasso informe di fili sbilenchi. Troppi i nomi da ricordare, i cambi di location, le variazioni di genere e le innumerevoli spire di una trama che assume le fattezze di un enorme cerchio che alla fine manco si chiude. Che Bolaño sapesse scrivere è palese, che fosse un’attività che adorava è ancora più evidente: mentre sfogliavo le pagine mi sembrava di avere davanti agli occhi la Sagrada Famiglia di Gaudì a Barcellona; la bocca che progressivamente si apre mentre tenti di comprendere come sia possibile che un essere umano passa avere in testa tutto quel ben di dio. In un modo simile “2666” è un’opera ancora in costruzione considerati i molteplici elementi messi sul piatto e l’impossibilità, causa prematura scomparsa, di una conclusione così come l’aveva intesa l’artista. In un certo senso quelle gru ci sono anche dietro "2666". Ed è impressionante.

Seguendo il consiglio di Bolaño ho deciso di addentarlo senza un ordine. Ho cominciato quindi dalla terza parte non per una affezione particolare al numero 3, ma per mera pigrizia: nel centro le pagine si sfogliano con maggiore facilità ed il peso del tomo rende la lettura piacevole anche da terra, la mia posizione preferita per masticare inchiostro. Sono finito in Messico: posto decisamente cazzuto, specie se sei una ragazzina e vivi nella ridente Santa Teresa. Una rincorsa e, oplà, salto con fare felino alla fine, quando le pagine paiono più leggere e mi sono trovato sballottato in aerei tra gli USA e la Germania dei tempi recenti: i primi fili che si intrecciano. Terminata l’ultima parte, la seconda in ordine cronologico, il cerchio non si chiude, lascia intuire come se ti invitasse a continuare. Il perno dell’autore non è quello di dare delle risposte definitive ma di raccontarci una storia enorme; alla ricerca di uno sfuggente scrittore (Benno Von Arcimboldi) percorriamo continenti, decadi per un libro che muta a più riprese genere passando dal biografico all’hard boiled, al giallo, al filosofico. Centinaia le frasi di pregio che ho sentito il bisogno di sottolineare per un lavoro incapace di stare seduto e queto; come se andasse alla ricerca di qualcosa e chissenefotte se alla fin fine la trova. Una metafora della vita? La trama non conta, ve la dimenticherete e si sfuocherà dopo poche settimane: rimarrà quella sensazione di esservi impegnati in un immenso puzzle da 10.000 e averne persi una ventina chissà dove, forse sotto il tappeto. Bolaño sembra dirci: “non trovi sia bello scrivere in questa maniera libera e fuori dagli schemi?”. Pare chiederci, hai capito come si fa?

Sinceramente, no.

Leggere “2666” è un piacere amaro. Quel “pof” iniziale non lo definirei per nulla appagante, ma frustrante per tutti coloro i quali passano del tempo la sera riempiendo le pagine di una Moleskine con i fatti speziati della settimana trascorsa. Scrivere in punto di morte un’opera così anomala, eterogenea, godibile alla lettura e stimolante per l’intelletto ti fa quasi passare la voglia, ti riporta alla corretta, scomoda ed insignificante posizione che ti si confà. Credo sia questo il motivo per il quale mi sembra che stasera siano finiti dei sassi tra i tasti del pc. Rileggo ed è un gran casino; porca troia, sembra il discorso di un politico in piena campagna elettorale, ma a mia discolpa devo dire che mica è facile sebbene non sia stato certo il medico a ordinarmi di scrivere queste righe. Fortuna vuole che il fumo sollevato dovrebbe avere anche il potere di incuriosire chi, inclinando il collo ed aggrottando la fronte, si vorrà fermare.

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