Il grande cinema su debaser, ovvero Dado e la storia del cinema.
Non sono mai stato un divoratore di film. Tuttavia, quando ormai si avvicinava la fine del mio percorso nelle scuole elementari di un non ridente paesino del cagliaritano, piombò a casa mia una serie di VHS intitolata “l’Unità e Ricordi presentano i Capolavori italiani”.
Il giovane Dado consumò così, prima di entrare nella difficile fase adolescenziale, tra una partita di tennis e due tiri a un pallone, i primi grandi classici della (sua) collezione di film: imparava a memoria le battute di “ Per un pugno di dollari” e di “Totò a colori”, ma si commoveva solo immedesimandosi nella storia del piccolo Edmund Koeller.
È così che conobbi il cinema di Rossellini e Germania anno zero fu il primo film che vidi della straordinaria trilogia della guerra fascista e antifascista Rosselliniana.
Solo più tardi vidi l’altrettanto patetico e più famoso Roma, città aperta e il più neorealista e ostico Paisà.
Dopo anni e anni, l’ormai adulto Dado riguarda quell’opera, chiedendosi se ancora un film dai mille meriti artistici e con intenti pedagogici come questo, possa essere ancora visto senza catastrofi da un giovanissimo pubblico di millennials. E non si sa dare una risposta.
Il film si apre con tre minuti di panoramiche e carrellate in esterna che ci mostrano con spirito documentaristico una città distrutta, Berlino.
Alla fine di questi tre minuti, su una musica tragica, una voce fuori campo ci comunica le motivazioni e lo scopo dell’opera:
“Questo film, girato a Berlino nell’estate del 1947, non vuol essere che un quadro obiettivo e fedele di questa immensa citta semidistrutta, in cui tre milioni e mezzo di persone trascinano un’esistenza spaventosa, disperata, quasi senza rendersene conto, vivono nella tragedia, come nel loro elemento naturale, ma non per forza d’animo o per fede, per stanchezza. Non si tratta di un atto di accusa contro il popolo tedesco, né di una difesa, ma di una serena constatazione di fatti; ma se qualcuno, dopo aver assistito alla storia di Edmund Koeller, penserà che bisogna fare qualcosa, che bisogna insegnare ai bambini tedeschi a riamare la vita, allora la fatica di chi ha girato questo film, avrà avuto la sua ricompensa.”
In questo contesto reale viene raccontata una sola storia, quella di Edmund, un affamato tredicenne tedesco; è questa una storia immaginaria, ma verosimile, che dà risonanza a tutta le storie che tragicamente finiscono nell’anonimato della moltitudine berlinese.
Edmund vive, all’interno di una sola stanza, insieme al padre malato, al fratello Karl Heinz e alla sorella Eva. I padroni di casa, che ospitano cinque famiglie, son burberi e rancorosi verso Edmund e verso tutti gli ospiti. Dei tre familiari, il primo è costretto a letto dalla malattia, il secondo, Karl Heinz, è un reduce di guerra tedesco che vive nascosto perché, sconfitto, ha paura di consegnarsi ai vincitori, e la terza, Eva, si occupa della famiglia come può, tra code per gli alimentari e bar frequentati dai vincitori stranieri, ma rimanendo comunque fedele al fidanzato disperso in guerra.
Edmund sente il peso di tutta la famiglia sulle sue spalle e cerca ogni modo per portare a casa qualcosa da mangiare. Ma l’impresa è irta di ostacoli.
Il film segue due giorni di vita del ragazzo. Una vita durissima per le strade della città. In un luogo in cui uomini e donne vivono esistenze disperate, non c’è spazio per la solidarietà e per l’amore per il più debole, ma il tutto si riduce a una lotta per la sopravvivenza (e citiamo il titolo dello straordinario documentario storico di Rossellini figlio).
Così la massa di disperati adulti berlinesi non si ribella contro un inumano datore di lavoro, ma scaccia il ragazzo, troppo giovane per avere diritto alla tessera del lavoro e quindi a un impiego.
Essendo estromesso dalle cure statali, Edmund deve rivolgersi alla solidarietà dei singoli, finendo dalla padella alla brace.
Edmund si scontra così con un inferno nel quale i bambini vivono di furtarelli e piccoli espedienti (qualcosa peggiore della vita violenta di Pasolini) e gli adulti sono astiosi (si veda il padrone di casa) o, peggio, sono ruffiani, viscidi e ambigui (come in particolare il vecchio maestro elementare nazista di Edmund).
In un mondo simile non c’è nessuna luce per Edmund.
Nelle sue vicende non c’è spazio per l’imprevedibile e l’irrazionale, bensì ad essa soggiace un’idea deterministica della vita: dove c’è la disperazione e la miseria più nera e si smarrisce la solidarietà tra uomini e donne, la vita diviene impossibile.
E il piccolo Dado scoprì la passione per un certo cinema patetico dalle storie drammatiche e disperate.
Mica sarà un caso se negli anni mi son appassionato alle vittime protagoniste del cinema di Lars Von Trier?
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