Quando il gioco si fa duro i duri continuano a giocare, nel caso di questo chitarrista londinese a suonare (in lingua inglese viene d’altronde usato lo stesso verbo…), tirando dritto incurante del fatto di essere ormai oggetto di strettissimo culto, con la breve stagione di esteso successo lontanissima nel tempo (anni 1973-76). Lui continua imperterrito a far concerti, pubblicare album e intitolarli all’uopo (“Vado per la mia strada”… in questo caso), suonare da dio e far godere tutti quelli che hanno la rara, cronica malattia di ammirarlo e seguirlo ancora e per sempre.
Questo è un disco eccellente… purissimo e ispirato rock blues britannico contaminato dal solito fantasma di Jimi Hendrix, l’uomo che aprì orecchie e cervello al giovane Trower mentre che stava ancora perdendo tempo a fare il gregario di pianista e organista nei Procol Harum. Robin è uno di quegli artisti con la capacità di “entrare” dentro le sei corde del suo strumento, acchiappare ogni singola nota con tutta l’attenzione, l’amore possibile, lavorarsela con cura e continuare a muoversi dentro di lei fino all’ultimo, finché non viene il momento di dedicarsi a quella successiva, ricominciando da capo con la stessa, appassionata cerimonia. Appartiene insomma a quella schiera di solisti dal tocco ricchissimo, espressivo e sorprendente… la schiatta dei Beck, Gilmour, Belew, il povero Kossoff, Knopfler, Ian Chricton, Gibbons, anche Page; tutta gente che quando parte in assolo riesce invariabilmente a far scivolare il proprio cuore fin nei polpastrelli, a modellare attacco suono intonazione e tempo ad esatto umore del momento, a sfornare sensazioni profondissime per chi, tra gli appassionati di rock, ha orecchie buone e il giusto discernimento fra ciò che è autentico o meno, nella musica.
Trower, come tutti, si era un po’ perso negli anni ottanta, correndo dietro o meglio ancora subendo il tipo di suoni e produzione del tempo, così vacui e informi. Ma questo disco è di fine millennio e le scorie di quella fase di carriera sono del tutto rimosse; il maestro è qui intenso ed infuocato, il suo stile hendrixiano si appoggia a tonnellate di pedale wah wah, sapienti echi ribattuti, sottili tremoli per dare spessore infinito e filamentose code alle note rese così musicali e pregnanti dal sublime vibrato, la dinamicissima pennata, l’insana passione che pervade la sua vocazione alla musica e si irradia all’istante verso chi ascolta con dovuta attenzione e trasporto.
Gli episodi più rimarchevoli dell’album sono innanzitutto l’eponima apertura, un blues psichedelico che viene stirato fino ad oltre i nove minuti a mezzo di una smisurata improvvisazione di chitarra veramente stordente, poi l’ispirata ballata hendrixiana “Into Dust”, la rarefatta e rotolante “Blue Soul”, la vellutata e intimista “On Your Own”, la psicotica “Take This River” e infine “Breathless”, ipnotico brano in stile un po’ grungettone (il groove di batteria, il riff brutalmente aspro) messo come traccia numero due a provare ad allargare gli orizzonti d’ascolto.
Trower nell’occasione si cimenta spesso e volentieri anche alla voce, non certo talentuosa come il resto del suo arsenale di musicista… gli viene fuori un timbro un po’ alla Tom Petty, ma comunque è tale la schiettezza, la centralità verso quello che fa, la meticolosa attenzione per le sfumature e le possibilità del blues che ci sta, eccome se ci sta, che se la suoni e se la canti.
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