Un qualsiasi album di Robin Trower, tanto con lui si va sul sicuro, avesse fatto mai un disco brutto, in cinquant’anni di business… Questo è del 1988 ed è l’undicesimo di carriera. Siffatto divino suonatore di Fender Stratocaster si sta avvicinando alla trentina di dischi pubblicati ed a marzo prossimo compierà ottant’anni, che dio lo benedica. Grazie di cuore Robin, mi hai fatto e mi fai ancora godere parecchio.

Carriera divisa in tre fasi la sua, tralasciando gli inizi sessantiani coi Paramounts che sortirono solo un mazzetto di singoli: dal ’67 al ’71 è stato coi Procol Harum, ad iniettare per quanto possibile sano rock blues chitarristico nelle trame decisamente pianistiche ed organistiche, peraltro squisite, di quel gruppo. Dal 1973 si è messo in proprio, mettendo decisamente sullo sfondo le tastiere ed appoggiandosi ad eccellenti cantanti pieni di soul per far esplodere il suo blues rock pieno di fuoco ed amore per la chitarra. L’andazzo è andato avanti per decenni finché, ristrettosi via via sempre più il suo giro di fans fino ad un livello per così dire di culto, ha pensato bene anche di cantarselo da per sé, oltre che suonarselo, quel suo meraviglioso blues elettrico. Questa terza fase è iniziata più o meno una dozzina d’anni fa, e continua tuttora.

Trower è senz’altro uno degli dei più amati nel mio personale Olimpo musicale; il più credibile, rispettabile, umile, coerente prosecutore della autostrada, magnifica, aperta da Jimi Hendrix per la chitarra elettrica e in generale per la musica popolare. Stare dietro a quel suo modo di prendere ogni nota in cinquantamila modi diversi e poi subito scavarla, muoverla, curarla fino all’estremo lembo di suono mi procura piacere fisico, ammirazione genuina, gratitudine. E la ritmica? Niente power cords per lui, ben pochi stereotipi hard rock ma invece molto James Brown, quello sfregare leggero e preciso su tre o quattro corde che rende agile, pressante e avvincente l’accompagnamento.

Il disco è di parecchi anni fa, siamo ancora in piena seconda fase secondo quanto scritto prima ed al canto evoluisce Davey Pattison, ottimo anche lui, caldo ed equilibrato. Inutile discriminare fra un brano e l’altro, Robin Trower più che un musicista, un chitarrista, un gruppo, è una filosofia di vita, una passione ed un amore diventati suono divino, un dedicarsi e lasciarsi andare ad esso fatti persona, canzoni, assoli, dischi. Non una nota di chitarra, in quest’opera, viene presa senza il trasporto totale, l’attenzione meticolosa ma libera, la sapienza esperta appaiata alla gioia. Un luminare.

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